Secondo le più aggiornate proiezioni statistiche tra cui il Revision of World Population Prospect, il report delle Nazioni unite che ogni anno fotografa l’andamento della popolazione mondiale e fa le previsioni sul futuro, entro il 2050 le persone di età pari o superiore ai sessantacinque anni costituiranno quasi il quaranta per cento degli abitanti in Europa e in alcuni paesi dell’Asia orientale tra cui la Cina, il Giappone e la Corea del sud. Un indice di vecchiaia così elevato, mai raggiunto finora, minaccia il mantenimento dello stato sociale e le condizioni di vita di alcune delle aree geografiche più dinamiche e produttive del pianeta. Di conseguenza, oltre alla progressiva perdita di competitività di numerose nazioni finora considerate fondamentali per la crescita economica mondiale, rischiano di ridursi e perfino di annullarsi le politiche di welfare, che sembravano irreversibili come le pensioni, la sanità, i sussidi di disoccupazione e altri interventi di carattere sociale con cui sono stati finora garantiti la sicurezza economica e il benessere a un numero elevato di cittadini. Un mutamento epocale in cui il dividendo demografico, la condizione dove la popolazione in età di lavoro supera quella non autosufficiente, sarà raggiunta solo nel sud e sud-est asiatico, in Africa e Medio Oriente, che potrà ridefinire anche gli equilibri di potere.
Nuove opportunità
L’invecchiamento della parte più ricca della Terra rappresenta l’altra faccia della medaglia di una crescita economica diffusa, che ha dato la possibilità a larghi strati di cittadinanza di avere un’educazione e cure sanitarie migliori, di seguire stili di vita più corretti e un’alimentazione di maggiore qualità. Fattori che hanno consentito di raggiungere un’aspettativa di vita media molto superiore a quella anche solo di pochi decenni fa. A questo si deve aggiungere che una quota sempre maggiore di donne può accedere a percorsi educativi e formativi di alto livello e di entrare così nel mondo del lavoro con aspettative crescenti. A mano a mano che le famiglie migliorano la condizione economica, scelgono poi in modo più consapevole se e quando avere figli e tendono ad averne meno per poter destinare maggiori investimenti al loro sviluppo culturale e sociale. La diminuzione della popolazione attiva si trasforma però in un problema difficilmente solubile per le economie avanzate che perdono inesorabilmente peso nella misurazione del Pil globale, mentre parallelamente il suo continuo, anche se rallentato aumento può aprire nuove opportunità ai paesi attualmente a basso reddito.
Crescita equilibrata
Come ci ricorda Beda Romano nell’articolo Europa senza figli, l’intero Continente è sotto pressione in Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2024: “Dei dieci Paesi al mondo con il maggior numero di persone centenarie, tre sono europee: la Francia, l’Italia e la Spagna… Per oltre mezzo secolo, la popolazione dei 27 Paesi membri è cresciuta, da 354 milioni nel 1960 a 447 milioni nel 2022. Secondo un rapporto del centro statistico Eurostat, dopo aver toccato un picco nel 2026, il numero di abitanti nell’Unione europea è destinato a calare progressivamente da lì in poi. Il fenomeno è politico, economico, sociale”. La Francia, che nonostante il rallentamento degli ultimi anni mantiene ancora il primato continentale della natalità, e i paesi scandinavi cercano di contrastare questo fenomeno con un welfare generoso, con assegni familiari, congedi parentali e detrazioni fiscali, oltre a facilitare l’accesso agli asili nido. La Germania invece ha soprattutto sostenuto l’accoglienza di nuovi immigrati e l’integrazione di quelli già presenti attraverso politiche di scolarizzazione, formazione professionale e aiuto al reddito, mentre l’Italia mantiene un tasso di fertilità, l’indice che esprime il numero medio di figli per donna, molto basso e in costante decrescita (vedi riquadro L’Italia non è un paese per giovani). Il paragone con la Florida, considerata il luogo privilegiato dai pensionati americani, rende evidente la situazione di crisi della natalità che coinvolge molte nazioni europee e dell’Asia orientale, dove la percentuale di persone con oltre sessantacinque anni è quasi il doppio di quella dello stato americano e mette a rischio la prosperità economica e la coesione sociale. Stati uniti e Australia riescono a mantenere un buon equilibrio demografico grazie a tassi di natalità leggermente superiori a quelli europei, ma soprattutto per la capacità di integrare nuovi migranti. Si prevede che nel 2050 quasi il ventiquattro per cento di abitanti avrà sessantacinque o più anni, una percentuale superiore rispetto a quella attuale, che secondo i dati del Census Bureau, l’Ufficio del censimento Usa, relativi al 2023 è del 16,8%, ma sensibilmente minore di quella della maggior parte dei paesi europei e dell’Asia orientale attesa intorno al trenta per cento. Gli Stati uniti sono da duecento anni un paese caratterizzato da una forte immigrazione, che fa ormai parte dell’identità nazionale dato che il sedici per cento della popolazione è nato all’estero. Nonostante una crescente e radicata opposizione di circa il trenta per cento di americani, la maggior parte dei cittadini e di numerosi esponenti della politica e del business considera l’immigrazione, controllata ed equilibrata rispetto alle esigenze sociali, anche dopo il deciso cambio di rotta del governo Trump, un elemento fondamentale per lo sviluppo e la vitalità economica e culturale.
Sviluppo significativo
Nel 2023 l’India ha superato la Cina come paese più popoloso al mondo con più di 1,4 miliardi di abitanti (https://databank.worldbank.org/reports.aspx?source=2&country=IND) e, secondo le stime della Banca mondiale, potrebbe andare oltre il miliardo e seicentosettantamila entro il 2050. Un paese giovane, con età media intorno ai venticinque anni, che nonostante i gravi problemi dovuti a un’ampia fascia di popolazione povera, stimata intorno al quindici per cento e al basso tasso di partecipazione al lavoro delle donne, inferiore al venti per cento, può contare su una crescita annua stabilmente al di sopra del sette per cento, con cui dopo aver sorpassato in termini di Pil la Russia, il Brasile, il Canada, l’Italia, la Francia, il Regno unito, si è portata al quinto posto nella classifica mondiale e si prepara a superare la Germania e il Giappone per situarsi al terzo posto dopo gli Stati uniti e la Cina. Uno sviluppo che secondo numerose analisi internazionali potrebbe consentirle di diventare la prima potenza economica anche grazie a un tessuto sociale particolarmente giovane. Secondo molte previsioni gli indiani in età lavorativa supereranno infatti nel 2050 il sessantasette per cento della popolazione. La Cina è invece al centro di una crisi demografica con un indice di fertilità sceso all’1,20 per cento e inferiore a quello della media dell’Unione europea e del Giappone, paese simbolo della decrescita demografica, con una preoccupante quota di anziani. Problema che coinvolge anche altri paesi del Sud est asiatico come la Corea del sud, Singapore e il Vietnam, che ha iniziato il percorso di invecchiamento senza avere prima raggiunto un benessere diffuso.
Declino o opportunità?
Per superare il problema della bassa fertilità, che limita fortemente il numero di giovani in età lavorativa, non occorre solo sostenere le nascite perché, anche se si riuscisse a portarle in tempi brevi alla soglia ideale del 2,1, i nuovi nati potrebbero contribuire al ciclo produttivo tra non meno di una ventina d’anni. Dato che l’invecchiamento progredisce molto velocemente, un’auspicabile inversione di tendenza non è quindi sufficiente a impedire il rapido declino in atto nelle società attualmente più sviluppate. Oltre a mantenere o a raggiungere un alto livello di welfare è quindi necessario che le persone lavorino più a lungo, alzare di conseguenza l’età pensionabile in base al tipo di attività e al livello di reddito, investire sulla digitalizzazione e l’automazione per compensare almeno in parte il minor numero di dipendenti e soprattutto attuare delle politiche che facilitino l’inserimento culturale e sociale degli immigrati, in modo particolare di quelli più qualificati, con forti investimenti in istruzione e formazione, che oltre a contribuire a risolvere la mancanza di lavoratori in molti settori aiuta a contrastare la riduzione della popolazione in età fertile. Fondamentale sarà anche favorire e valorizzare l’ingresso di giovani e donne nel mondo produttivo, che consentirà loro non solo di potersi meglio realizzare in campo professionale, ma di sviluppare anche progetti di vita più aderenti alle loro aspirazioni. Per comprendere e valutare meglio la complessità della decrescita demografica può però essere utile ascoltare anche voci dissonanti come quella dello storico e filosofo Yuval Noah Harari che nel suo libro 21 Lezioni per il XXI secolo (Bompiani, pp. 492, 16 euro, eBook 9,99 euro) afferma: “Penso che il declino dei tassi demografici sia in effetti uno sviluppo estremamente positivo. Soltanto pochi anni fa la gente temeva che un’esplosione demografica ci avrebbe portato al collasso ecologico… quando i computer e i robot prenderanno il posto degli uomini nel mercato del lavoro, il timore di una forza lavoro che va riducendosi potrebbe dimostrarsi irrilevante, mentre il vero grosso problema sarà la disoccupazione. Pertanto essere di meno potrebbe rivelarsi una benedizione”. Sarà davvero così?
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“Il dividendo demografico, la condizione dove la popolazione in età di lavoro supera quella non autosufficiente, ridefinirà gli equilibri di potere”
“La diminuzione di abitanti nelle economie avanzate provoca una caduta del Pil, mentre il suo incremento dà possibilità ai paesi a basso reddito”
“Una percentuale sempre maggiore di donne accede a percorsi educativi e formativi di alto livello e ha delle aspettative di carriera crescenti”
“A mano a mano che le famiglie migliorano la loro condizione economica, scelgono in modo più consapevole se e quando poter avere dei figli”
“Oltre a mantenere un alto livello di welfare è necessario che le persone lavorino più a lungo e sia facilitato l’inserimento degli immigrati”
“Sarà fondamentale valorizzare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro per favorire le loro aspirazioni e realizzare i propri progetti”
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L’ITALIA NON È UN PAESE PER GIOVANI
Pericolo welfare. Nel 2050 ci sarà un solo lavoratore per ogni pensionato
Come certifica l’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, dal 2008 le nascite nel nostro paese sono in continuo calo e stabilmente al di sotto di quota quattrocentomila (https://www.istat.it/it/files/2023/10/Report-natalita-26-ottobre-2023.pdf). Di conseguenza il numero medio di figli per donna scende sotto 1,24, un indice molto lontano dal traguardo di 2,1 che assicura la stabilità del numero di persone che compongono una popolazione. Una delle conseguenze è che per ogni bambino con meno di sei anni ci sono più di cinque anziani. Negli ultimi anni è inoltre diminuito l’effetto positivo sulle nascite della popolazione di origine straniera che nei primi anni Duemila hanno contribuito in modo rilevante al suo aumento, anche se mantiene ancora in modo positivo. Per Alessandro Rosina, docente di Demografia nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, l’Italia “si trova a fronteggiare una crescita della popolazione anziana e una progressiva riduzione dei giovani, aggravata dalla persistente bassa natalità. La transizione demografica incide sulla forza lavoro che rischia di indebolirsi in tutti i settori produttivi… Un passaggio unico nella storia dell’umanità che porta a un mutamento delle tradizionali fasi della vita e un’alterazione del tipico rapporto tra le generazioni, con implicazioni che mettono in discussione le basi che finora hanno consentito lo sviluppo economico e la sostenibilità sociale” (https://www.alessandrorosina.it/il-dividendo-demografico/). Il rapporto tra persone in età lavorativa (15 – 64 anni) e non è sceso da circa tre a due nel 2011 e sarà circa uno nel 2050). Secondo le previsioni Istat, definite in base alle tendenze attuali, la popolazione italiana potrebbe diminuire di undici milioni entro il 2070 con un calo concentrato nella fascia di età lavorativa. Come ha dichiarato l’ex presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo a Il Sole 24 Ore del 30 luglio 2023, il Pil italiano potrà segnare nel corso di vent’anni una diminuzione del diciotto per cento con un calo del Pil pro capite di cinquemila euro. Se a questo aggiungiamo che ogni lavoratore dovrà sostenere un pensionato, le prospettive per il nostro paese non sono certo ottimistiche.