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Le città occupano solo il due per cento della superficie terrestre, ma rappresentano la maggiore fonte di inquinamento atmosferico. Secondo il rapporto Ren21 (https://www.ren21.net/reports/cities-global-status-report/) della Renewable Energy Alliance, l’organizzazione internazionale per l’energia sostenibile, causano il 75 per cento della produzione globale di gas serra e sono il principale fattore del consumo di suolo e di acqua, due risorse preziose per la tutela dell’equilibrio ambientale e del nostro benessere. Uno studio pubblicato su Frontiers in Sustainable Cities (https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/frsc.2021.696381/full) sottolinea inoltre che più della metà delle emissioni sono prodotte da venticinque metropoli localizzate soprattutto in Cina, oltre a Mosca, Istanbul, Tokyo e New York.

Tutela dell’habitat
Tra le città dell’Unione europea, quella che provoca il maggiore inquinamento è Francoforte seguita da Atene e Berlino, mentre nel nostro paese Torino si segnala per il più alto numero di emissioni. In base alle proiezioni della United Nation Population Division, il dipartimento degli affari economici e sociali dell’Onu per le ricerche demografiche (https://en.wikipedia.org/wiki/Projections_of_population_growth) entro il 2040 la popolazione mondiale supererà i nove miliardi di cui circa i due terzi si concentreranno nelle aree urbane, con una previsione di crescita di oltre 70 milioni di persone all’anno. Un aumento che pone gravi problemi di sostenibilità. Tra questi l’ampio utilizzo di risorse naturali, la produzione di rifiuti e la necessità di incrementare il mercato immobiliare tradizionale, un’attività particolarmente energivora e con un’elevata produzione di gas serra, superiore a quella causata dalle attività industriali e dai trasporti. Il progressivo maggiore utilizzo di energie rinnovabili potrà abbattere le emissioni nocive fino a circa la metà, ma è indispensabile avviare una sempre più stretta collaborazione tra istituzioni, imprese e cittadini in modo da creare un circolo virtuoso in grado di superare efficacemente questi problemi. Le città contribuiscono alla formazione di circa l’80 per cento del prodotto lordo mondiale e costituiscono un fattore di espansione fondamentale per l’economia. La loro crescita, che negli ultimi anni ha avuto uno sviluppo considerevole, non è destinata a rallentare. Un report del World Economic Forum, il meeting economico mondiale che ogni anno organizza a Davos un incontro tra alcuni dei principali esponenti del mondo della politica e dell’economia rileva però che la loro sviluppo è avvenuto a spese dell’habitat. Nei primi dodici anni del ventunesimo secolo, il suolo edificato è infatti cresciuto di due terzi e ha favorito il degrado degli ecosistemi (https://www.weforum.org/reports/biodivercities-by-2030-transforming-cities-relationship-with-nature). Le città devono quindi trasformarsi non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello territoriale per salvaguardare l’ambiente e la sua biodiversità sempre più compromessi e minacciati dalla crisi climatica.

Modelli emergenti
Negli anni scorsi si è imposto all’attenzione internazionale il concetto di smart city, di un centro abitato intelligente che grazie all’uso diffuso delle tecnologie della comunicazione mette in relazione la mobilità urbana con la tutela del territorio e l’efficienza energetica per migliorare la qualità della vita e favorire il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte per il futuro della città. Un modello entrato in crisi a causa della complessità dei sistemi tecnologici e dei numerosi problemi causati soprattutto nel campo della sicurezza sia a livello collettivo sia individuale. Per superare queste difficoltà Carlo Ratti, l’architetto, ingegnere, urbanista italiano, che dirige il Mit Senseable City Lab del Massachussets Institute of Technology di Boston ha declinato un nuovo progetto non più legato alla sola dimensione tecnologica, ma aperto alla componente umana di Sense-able city, che mette le persone al centro delle innovazioni e usa la tecnologia solo come uno strumento. Una città che attraverso la grande quantità di dati prodotti quotidianamente a partire dalle più semplici operazioni che compiamo con il nostri smartphone, è in grado di “sentire”, di comprendere le esigenze dei cittadini e li aiuta non solo a risolvere i problemi legati al traffico, a tenere sotto controllo e a migliorare le reti informatiche o le emergenze di tipo sociale e sanitario, ma anche di interpretare le necessità legate a uno sviluppo più armonico ed equilibrato, a ridurre il proprio impatto sull’ambiente e le emissioni di anidride carbonica e di altri gas inquinanti con la possibilità di influire concretamente sulle più importanti decisioni da prendere attraverso una diffusa partecipazione bottom up, cioè dal basso verso l’alto.

Nuove tecnologie
Se nel secolo scorso l’unico modello seguito nella gestione delle città era quello dall’alto (top down), oggi per gli enti pubblici è invece indispensabile avere un dialogo costantemente aperto non solo con i cittadini, ma anche con le imprese, i centri di ricerca e le start up. Tra gli obiettivi prioritari dei centri abitati c’è quello della riduzione dell’impatto sull’ambiente e con il contributo delle nuove tecnologie è oggi possibile avere una sempre maggiore presenza della natura nella pianificazione delle città. Esempi significativi, oltre agli interventi di “agopuntura urbana” con la pedonalizzazione di aree pubbliche e la creazione padiglioni verdi, sono quelli delle coltivazioni idroponiche, che non crescono nel terreno ma in soluzioni acquose di sali essenziali o in substrati di argilla espansa e altri materiali naturali inumiditi con soluzioni nutritive e delle urban farming (fattorie urbane), che consentono a chi non vive in campagna di coltivare verdure e ortaggi sul terrazzo, in giardino, nei terreni abbandonati o nelle aree degradate con il vantaggio di eliminare o ridurre al minimo il trasporto dei prodotti e contribuire alla mitigazione delle emissioni di CO2.

Efficienza e cura ambientale
In Asia e Medio Oriente si segnalano molti tra i più significativi progetti di smart city in via di realizzazione. In Cina (Caofeidian, Tianjin Eco City, Nanjing Green City e Hainan Future City), negli Emirati arabi (Masdar City, Abu Dhabi Capital Green City, Granthood Green City), in India (Lavasa Green City), Vietnam (Hanoi Green City) e a Singapore sono in corso alcuni dei più interessanti programmi di città sostenibili e inclusive dove viene posta molta attenzione alla gestione dei rifiuti, al controllo della salubrità dell’aria, alla tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico, alla qualità e alla sicurezza delle abitazioni. Un tipo di centro abitato basato sul contributo dei cittadini alle decisioni che riguardano soprattutto la pianificazione e il miglioramento dei servizi e della viabilità con un trasporto pubblico efficiente e una mobilità condivisa tra cui si evidenzia Neom. La città, che sorgerà in Arabia Saudita nella provincia di Tabuk tra il Mar Rosso e il Golfo di Aquaba, si propone di diventare la prima e più vasta area hi tech al mondo. Si prevede che avrà un’estensione di 26.500 chilometri quadrati, un territorio vasto poco meno del Belgio.

Realtà in progress
In Giappone la multinazionale dell’auto Toyota ha pianificato la realizzazione di Woven City una città che sorgerà su progetto dello studio danese BIG (Bjarke Ingels Group) nei pressi del monte Fuji e unirà sostenibilità e tecnologia d’avanguardia. Occuperà un’area di circa settanta ettari. Sarà caratterizzata da edifici in legno e verrà alimentata da un ecosistema formato da celle a idrogeno e pannelli solari. Ospiterà laboratori di ricerca dedicati ai temi dell’intelligenza artificiale, della domotica, della guida autonoma e della mobilità urbana. Lo studio BIG ha definito anche il progetto di Telosa, dal greco télos che denota lo scopo dell’esistenza umana, una metropoli di cinque milioni di abitanti estesa per oltre cento chilometri quadrati che il miliardario Marc Lore, ex Ceo del colosso della grande distribuzione Walmart vuole edificare nel deserto americano con un’architettura ecologica, la produzione di energia sostenibile e un sistema idrico capace di sfruttare al massimo le scarse risorse ambientali. Se Neom, Woven City e Telosa indicano le vie percorribili in un prossimo futuro, Singapore, da tempo ai vertici delle classifiche internazionali dello Smart City World (https://www.smartcitiesworld.net/news/singapore-ranked-top-of-smart-city-index-for-third-year-7086) si presenta come una realtà in progress. Il celebre studio di architettura WOHA, fondato nel 1994 da Wong Mun Summ e Richard Hassel, ha disegnato la Singapore del 2100. Metà della superficie sarà completamente dedicata alla natura e metà verrà destinata alle strutture urbane per unire il progresso tecnologico alla qualità della vita e mitigare i problemi causati dal riscaldamento ambientale.

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“Le città contribuiscono alla formazione di circa l’80 per cento del prodotto lordo mondiale e rappresentano un fattore di espansione fondamentale”

“Entro il 2040 la popolazione del pianeta supererà i nove miliardi di cui due terzi si concentreranno nelle aree urbane con gravi problemi di sostenibilità”

“La Sense-able city a differenza della smart city usa la tecnologia solo come uno strumento e mette le persone al centro delle innovazioni”

“Salubrità dell’aria, qualità delle abitazioni, difesa del paesaggio e gestione dei rifiuti sono le basi delle nuove politiche abitative”

“I cittadini dovranno sempre più partecipare alla gestione delle città e diventare gli autentici protagonisti della trasformazione urbana”

“A Singapore, da tempo ai vertici delle classifiche internazionali dello Smart City World, metà della superficie sarà dedicata alla natura”

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CENTRI STABILI O REALTÀ TEMPORANEE?
Si moltiplicano i campi per rifugiati. In Giordania un esempio da seguire

In Italia e in Grecia, in Polonia, Ungheria, Ucraina. Nel Centro America e in Venezuela. Dalla Siria alla striscia di Gaza, nello Yemen e in Giordania, nel Maghreb e nell’Africa subsahariana. In Iran, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Myanmar… Parallelamente alla crescita e alla grande diffusione dei centri abitati e delle megalopoli, in tutto il mondo si sono moltiplicati i centri per rifugiati (http://data2.unhcr.org/en/situations#_ga=1.10384949.1092376976.1456992727) dove vivono milioni di persone costrette ad abbandonare i loro paesi in seguito a guerre, violenze, violazione dei diritti umani, persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le idee politiche, ma anche migranti in seguito ai cambiamenti climatici, a causa di carestie o di povertà estrema. In molti casi i campi profughi raggiungono delle dimensioni che li rendono paragonabili a una città, ma senza poter quasi mai contare su infrastrutture e servizi indispensabili come strade, ferrovie, scuole, ospedali, centri sociali e culturali. La maggior parte degli ospiti dei campi vive in container, in edifici spesso in disuso dove sono state ricavate unità abitative minime, oppure in tende che offrono un riparo precario contro il maltempo, il caldo e il freddo con conseguenze negative sulla salute fisica e mentale di chi li abita. Problemi di difficile soluzione che in futuro si possono aggravare a causa del prevedibile aumento a livello planetario del numero di rifugiati e migranti. Si chiedono quindi delle risposte in grado di assicurare a chi vive in questi luoghi anche per lunghi periodi un livello dignitoso di assistenza, la possibilità di poter lavorare, studiare e avere accesso ai servizi sanitari di base. Un esempio interessante per risolvere queste difficoltà ci viene dalla Giordania. A Za’atari, in un’area semidesertica al confine con la Siria, che si trova a dieci chilometri a est di Mafraq vivono circa ottantamila rifugiati siriani a causa di una guerra non ancora conclusa dopo più di dodici anni. Za’atari ci mostra la sorprendente capacità di reazione e integrazione della popolazione residente, la quale è riuscita a trasformare questo campo in un modello virtuoso di città non più temporanea ma destinata a durare nel tempo con scuole, ospedali, moschee, negozi, ristoranti, servizi, campi sportivi, luoghi di ricreazione, ma anche la sensibilità del paese ospitante che a differenza dell’Unione europea, con l’eccezione dei profughi ucraini e le parziali aperture di Germania e Svezia per i rifugiati siriani, non ha chiuso le proprie frontiere di fronte a una delle più gravi crisi umanitari dalla fine della seconda guerra mondiale.

Mario Schifano, Per esempio, 1990, Collezione Ovidio Jacorossi ⓇArchivioMarioSchifano ⓒMARIO SCHIFANO, by SIAE 2023. Dalla mostra Mario Schifano: il nuovo immaginario 1960 – 1990, Gallerie d’Italia, Napoli, fino al 29 ottobre 2023.
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