È iniziato il declino dei diritti civili

Oltre ai recenti, tragici episodi avvenuti a Chicago, dove un giovane afroamericano disarmato è stato colpito alle spalle dalla polizia, Baton Rouge in Louisiana e Saint Paul (Minneapolis) in Minnesota, che hanno scatenato la follia omicida di un ex marine e di un cecchino neri che hanno colpito a morte degli agenti di polizia bianchi, e precedentemente a Detroit, Chicago, Los Angeles, Tulsa, Wilmington, in cui la polizia ha ucciso senza motivo degli afroamericani, rimangono emblematici, a due anni di distanza, i fatti di Ferguson e Saint Louis in Missouri, dove sono stati ammazzati i due giovani Michael Brown e Kajieme Powell, che tanta indignazione hanno sollevato soprattutto dopo la mancata incriminazione dell’agente che ha sparato a Brown, l’assassinio a Cleveland di Tamir Rice, un dodicenne che impugnava una pistola giocattolo e l’assoluzione del poliziotto che a New York ha ucciso per soffocamento Eric Garner, un venditore ambulante nero. Questi drammatici eventi non sono solo il risultato del fortissimo incremento della diffusione delle armi negli Usa, della militarizzazione della polizia americana e delle diverse regole di ingaggio nei confronti dei bianchi o di afroamericani e ispanici, che ha sostituito comportamenti più efficienti come per esempio il dialogo con i residenti e ha provocato un aumento esponenziale della rabbia e della violenza. Saint Louis (Ferguson è un sobborgo della città) rappresenta infatti un caso emblematico delle disuguaglianze economiche e della segregazione razziale presenti nella maggior parte dei centri abitati degli Stati uniti. Restano infatti ancora profonde le divisioni tra i residenti bianchi, che dominano l’economia e la politica locale e hanno un’influenza decisiva sui consigli comunali e sulla polizia. La discriminazione razziale inizia già sui banchi di scuola e coinvolge in modo particolare afro e latinoamericani soprattutto maschi in età adolescenziale, criminalizzati in seguito a comportamenti devianti o borderline, ma non particolarmente pericolosi dal punto di vista sociale, come confermano i dati federali sul maggior numero di arresti rispetto ai coetanei bianchi. Le disparità provocano inoltre negli afroamericani un numero di abbandoni scolastici molto più elevato. Secondo un rapporto pubblicato recentemente dalla Brookings Institution, l’istituto Usa di ricerche indipendente nel campo dell’educazione e delle scienze sociali, c’è una probabilità vicina al 70 per cento che un afroamericano senza un diploma di scuola superiore sia arrestato prima dei 35 anni di età. Disparità particolarmente presenti in Missouri e Alabama, uno degli stati del sud in cui le disuguaglianze registrano le punte più elevate.

Il caso esemplare dell’Alabama
Nel 2010 con la conquista dopo molti anni della maggioranza nel Senato dell’Alabama (House of Representatives) da parte dei repubblicani, è iniziato il rapido e inesorabile declino dei diritti civili, che si sono affermati a partire dal 1965 dopo la firma da parte del presidente americano Lyndon Johnson del Voting Right Act (VRA) promosso da Martin Luther King. Il Voting Right Act ha dato il diritto di voto ai neri e ha raggiunto i massimi risultati agli inizi del duemila. Nello stato confinante del Missisipi la percentuale di votanti è passata dal 6,7 per cento del 64 al 59,4 per cento del 68. Negli anni successivi, il voto della popolazione nera ha portato all’elezione di più di mille politici afroamericani (se, per esempio, non ci fosse stato il VRA, Barack Obama non sarebbe stato eletto presidente degli Stati Uniti). A livello di governo federale l’impatto del VRA è stato profondo, ma in ambito locale ha avuto conseguenze ancora più significative e ha contribuito in modo determinante a raggiungere obiettivi di uguaglianza e libertà. Tra il 1980 e il 2010, in Alabama è stata praticata con successo un’autentica politica birazziale, che ha favorito una significativa collaborazione tra bianchi e neri, spesso con risultati migliori di quelli raggiunti da numerosi stati del nord. Il cambiamento politico in Alabama ha registrato una svolta negativa a partire dai primi anni duemila. Nell’House of Representatives, composta da 60 senatori del Partito democratico (34 bianchi e 26 neri), il numero dei senatori neri è sceso progressivamente a sette e quello dei bianchi è crollato da sette a quattro.

Addio al welfare state
Con l’Accountability Act, i repubblicani hanno deregolamentato il welfare della scuola. Grazie a contributi federali e detassazioni di vario tipo, per un totale di circa 40 milioni di dollari, è stata fortemente favorita l’istruzione privata a discapito di quella pubblica. Oltre all’Accountability Act sono state inoltre prese numerose iniziative che hanno fortemente ridotto i diritti, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione. Tra questi provvedimenti ricordiamo quelli che hanno penalizzato gli studenti delle scuole pubbliche, obbligate a richiedere il certificato di immigrazione, la legge anti aborto, poi giudicata incostituzionale dalla Montgomery Court, i test antidroga per chi abbia avuto una condanna causa il possesso di narcotici e altre iniziative destinate a smantellare il welfare state, tra cui la mancata richiesta di estendere il Medic Aid secondo le linee tracciate dall’Obamacare (Affordable Care Act). Nel sud degli Stati uniti, dove vive circa il 55 per cento della popolazione nera, un numero decrescente di bambini ha attualmente accesso all’istruzione primaria. Contemporaneamente, sempre più adulti sono affetti dal virus Hiv e c’è un’aspettativa di vita notevolmente inferiore rispetto alla media degli Usa, vicina a quella degli stati meno sviluppati. Si registrano inoltre percentuali preoccupanti di inquinamento delle acque e del suolo, soprattutto nelle zone riservate alle mobile home, occupate prevalentemente dalla popolazione meno abbiente, in particolare da quella nera, con pericoli crescenti causati da infezioni da hookworm (anchilostoma) un parassita intestinale molto aggressivo che affligge più del 40 per cento dei residenti negli stati del sud, ma che nei primi anni duemila era stato sradicato.

Discriminazione, intolleranza e pregiudizi
Queste nuove forme di razzismo non sono presenti solo negli Usa, ma si stanno espandendo anche in numerosi paesi delle economie emergenti e in Occidente. Non sono più quindi circoscritte alle zone più conflittuali del Sud del mondo (vedi articolo qui sotto Cresce nel mondo la popolazione senza diritti). Dalla Cina, dove il governo sostiene ufficialmente la libertà di espressione e l’uguaglianza etnica dei tibetani, principi che poi vengono violati quotidianamente attraverso tecniche di controllo e informazioni che possono snaturare l’identità delle persone, all’Est Europa in cui molte giovani donne, spesso anche minorenni, sono trascinate nel mondo sotterraneo del traffico sessuale. Anche al nostro paese si segnalano numerose e gravi violazioni dei diritti. Dai CIE (Centri di identificazione ed espulsione) in cui, come ha denunciato la Commissione diritti umani del Senato italiano in attesa di valutare i nuovi Hotspot, le condizioni di vita sono al di sotto degli standard di dignità umana ai tempi di attesa troppo lunghi per il rilascio della cittadinanza, ai problemi dei richiedenti asilo e dei rifugiati, alle gravi mancanze del sistema penitenziario. In Italia inoltre la tortura non è reato e anche il diritto alle cure è spesso disatteso. Migranti, stranieri, poveri, spesso non hanno accesso all’assistenza medica di cui hanno bisogno per scarsa conoscenza dei propri diritti, difficoltà linguistiche, incapacità di muoversi all’interno di un sistema sanitario con regole complesse. “Partecipazione e autogoverno”, hanno scritto Stefano Rodotà e Geminello Preterossi nell’introduzione al programma del Festival del diritto, tenutosi nel 2014 a Piacenza, “sono le due promesse fondamentali della democrazia moderna… Partecipare significa essere e sentirsi parte di una comunità aperta, sapere di contare nei processi attraverso cui si prendono le decisioni, poter controllare e mettere in discussione l’esercizio del potere: insomma esercitare una cittadinanza attiva… Ma oggi il bisogno di partecipazione sta trovando sempre più ostacoli, sia nelle istituzioni pubbliche statali sia in quelle europee, mentre i poteri economici globali, irresponsabili democraticamente, determinano i destini di intere società. Tendenze oligarchiche e tecnocratiche tendono a riaffermarsi, suscitando la sensazione che i frequenti appelli alla coesione sociale e alla ricostruzione di un legame tra istituzioni e cittadini siano operazioni retoriche, dietro cui si nascondono dinamiche neoautoritarie o comunque una notevole diffidenza rispetto al dissenso e alle istanze critiche dei cittadini”.

Cittadinanza su base etnica e neocensitaria
Solo una rinnovata politica costituzionale dei diritti può quindi rigenerare lo stato sociale democratico e tornare a dare una prospettiva all’Europa, che ha smarrito se stessa. “Senza una politica dell’inclusione”, precisano Rodotà e Preterossi, “non sono soddisfatte le condizioni di una cittadinanza democratica. Naturalmente l’inclusione deve essere il più possibile larga, universalistica L’opposto delle cittadinanze neocensitarie, o addirittura su base etnica, che la paura e la rabbia prodotte dalle politiche d’austerità rischiano di produrre. Partecipazione significa anche trasparenza delle istituzioni e dell’attività amministrativa. Le opinioni pubbliche sono diventate sensibili al tema, se non altro per il fatto che le nuove tecnologie rendono sempre più difficile una politica del segreto su scala globale per via della diffusione orizzontale e incontrollabile delle informazioni, soprattutto grazie al web… Ma le nuove forme del segreto e dell’arbitrio chiedono una riflessione all’altezza delle sfide in un mondo profondamente interconnesso, nel quale le ragioni della geoeconomia, unitamente a quelle della geopolitica, condizionano le scelte e gli assetti del potere, operando spesso nel retroscena, come dimostrano i recenti casi di spionaggio e violazione della privacy su scala internazionale, anche tra paesi alleati”.

 


 

“Nel sud degli Stati uniti, dove vive circa il 55 per cento della popolazione nera, ha accesso all’istruzione primaria un numero decrescente di bambini”

“In molti stati degli Usa la discriminazione razziale inizia sui banchi di scuola e l’aspettativa di vita è vicina a quella degli stati meno sviluppati”

“La Cina non rispetta l’uguaglianza etnica dei tibetani e si serve di tecniche di controllo che possono snaturare l’identità delle persone”

“In Italia il diritto alle cure è spesso disatteso. Migranti, stranieri, poveri, non hanno sempre accesso all’assistenza medica di cui hanno bisogno”

“La Commissione diritti umani del Senato italiano ha denunciato che le condizioni di vita dei CIE sono al di sotto degli standard di dignità umana”

“Oggi, in un mondo sempre più interconnesso, le ragioni della geoeconomia e della geopolitica, condizionano le scelte e gli assetti del potere”

 


 

Cresce nel mondo la popolazione senza libertà
Secondo Freedom on the World 2015, una persona su tre vive in un paese che non ha diritti. Italia al 77° posto per la libertà di informazione

Secondo Freedom on the World 2015, il rapporto annuale di Freedom House, l’organizzazione internazionale con sede a Washington, che valuta il grado di libertà democratiche percepite in ciascun paese e conduce attività di ricerca e sensibilizzazione sui diritti umani nel mondo, per l’ottavo anno consecutivo gli stati in cui diminuiscono i diritti superano quelli che registrano una crescita delle libertà civili, politiche e religiose. Su 195 paesi oggetto della ricerca, 89 sono stati giudicati liberi (46 per cento), 55 parzialmente liberi (28 per cento) e 51 non liberi (26 per cento). Quasi due miliardi e mezzo di persone vivono in uno stato in cui sono negate le libertà essenziali (non si svolgono elezioni, non sono riconosciuti i diritti civili e si viene perseguitati per le idee politiche o il credo religioso). Questi stati sono inoltre caratterizzati da repressione e violenze spesso esercitate dalle forze di polizia o dai militari che sostengono i diversi regimi. Asia, Russia e Vicino oriente guidano questa poco invidiabile classifica. Solo il 36 per cento dei cittadini del mondo, pari a circa due miliardi e novecentomilioni di persone vive in uno stato pienamente libero. L’Italia si trova al 65° posto nella libertà di informazione e, di conseguenza, viene giudicata un paese solo parzialmente libero per quanto riguarda la libertà di stampa. Fino al 2004 l’Italia era classificata come paese libero, poi fino al 2006 è stata declassata a paese parzialmente libero (governi Berlusconi II e III). È stata poi riclassificata paese libero nel 2007 e 2008 (governo Prodi II). Dal 2009 (governo Berlusconi III) è stata di nuovo declassata a paese parzialmente libero per i crescenti tentativi dei governi di interferire nella vita civile soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione pubblici. Per Reporters sans frontieres, l’organizzazione non governativa che difende la libertà di stampa, l’Italia si classifica al 77° posto nel ranking 2016 del World Press Freedom Index, collocandosi sotto la Moldavia e il Nicaragua. Perde quattro posizioni rispetto al 2015 soprattutto per le pressioni, le minacce, le violenze, le cause di diffamazione ingiustificate di criminalità e politica contro i cronisti, cui si aggiungono le forti ingerenze del Vaticano.

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Un’immagine di Santu Mofokeng, vincitore del primo Premio internazionale per la fotografia 2016. Dalla mostra Silent Solitude al Foro Boario di Modena.

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