Parlare oggi delle ferite non ancora cicatrizzate della prima guerra mondiale può sembrare anacronistico dato che questo conflitto viene visto come un evento del passato remoto, ma questa valutazione trova riscontro solo nei paesi occidentali perché nell’Europa dell’Est, nel Vicino e Medio Oriente le ostilità non sono mai davvero terminate. Rileggere la storia sotto la luce dei sentimenti, delle esperienze e delle motivazioni degli “altri”, si rivela quindi uno strumento fondamentale per comprendere l’attuale, spesso inestricabile situazione geopolitica. Se per gli abitanti di una parte dell’Europa gli anni che sono seguiti alla Grande guerra hanno rappresentato un periodo di lutto, ma anche di pace e prosperità, per le popolazioni sconfitte hanno segnato l’inizio di un incubo.
Desiderio di vendetta
Con The Vanquished. Why the First World War Failed to End, 1917-1923 tradotto in italiano da Laterza (La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923, pp. XXIV-421, 28 euro) Robert Gerwarth, professore di storia contemporanea all’University College Dublin dove dirige il Centre for War Studies, ci aiuta a conoscere gli eventi che non sono stati messi in evidenza dalla storia ufficiale ma si rivelano fondamentali per comprendere l’evoluzione di ostilità e drammi mai sopiti. L’armistizio di Compiègne sottoscritto l’11 novembre 1918 tra l’impero tedesco e le potenze alleate (Francia, Gran Bretagna e Stati uniti) ha messo fine a una tragica guerra, ma non agli scontri tra nazioni. Per l’avvenire dell’Europa si sono infatti rivelate ancor più dannose dell’ecatombe delle trincee le violenze nate sulle macerie degli imperi attraverso rivoluzioni, guerre civili, pogrom, espulsioni di massa, che hanno causato la morte di milioni di civili e provocato nelle popolazioni un diffuso sentimento di astio e rancore da cui si è sviluppato un radicato desiderio di rivincita e di vendetta contro nemici reali o presunti. L’estrema violenza che ha colpito l’Europa alla fine del primo conflitto mondiale ha così aperto la strada ai genocidi che si sono susseguiti ininterrottamente per quasi un secolo. Nell’Europa centro-orientale, nei territori appartenuti all’impero ottomano, agli Asburgo e all’impero russo dei Romanov, la guerra è continuata fino al 1923. Il vuoto lasciato dalla scomparsa di queste tre dinastie secolari, cui si sono aggiunte le clausole imposte dal Trattato di Versailles del 1919 e le rivendicazioni portate al massimo livello dalle tensioni politiche e sociali ha fortemente alimentato antagonismi e ostilità che erano stati contenuti e limitati dalle strutture militari, politiche e amministrative dei tre diversi imperi. Gerwarth elenca con chiarezza le tre cause scatenanti che hanno prolungato la guerra in queste regioni e si identificano con l’esplosione del nazionalismo etnico, la potenza devastatrice delle passioni rivoluzionarie e controrivoluzionarie diffuse in seguito all’avvento dei bolscevichi in Russia e il rifiuto, da parte soprattutto di alcune gerarchie militari, di una sconfitta umiliante.
Lotta per la supremazia
Secondo le ricerche di Gerwarth tra il 1917, l’anno della rivoluzione russa, e il 1920 si sono verificati ventisette conflitti violenti, che hanno coinvolto soprattutto l’Europa centro-orientale e il Vicino e Medio Oriente, ma che non hanno risparmiato la Gran Bretagna con la lotta per l’indipendenza irlandese cui è seguita una sanguinosa guerra civile. Tra le diverse ostilità si possono distinguere tre tipi di rivendicazioni. Se Polonia, Cecoslovacchia, Grecia e Turchia hanno combattuto per avere maggiori territori e più risorse economiche, in Russia e Finlandia le popolazioni si sono divise in fazioni avverse, mentre in altri stati gruppi di interesse nazionali o classi sociali hanno lottato per avere o mantenere il predominio, oppure per conquistare l’egemonia su altre nazioni. In Russia, come precisa Gerwarth, Lenin lanciò pubblicamente una “crociata” per il pane annunciando “lotta e guerra spietata e terroristica” contro chi nascondesse eccedenze di cereali. Al rifiuto di collaborare si rispondeva con brutali repressioni come l’impiccagione dei kulaki, i contadini considerati “ricchi e sanguisughe”, il bombardamento aereo di villaggi e l’uso di gas velenosi. Nello stesso tempo le milizie paramilitari tedesche dei Freikorps invasero gli stati baltici con il pretesto di combattere il bolscevismo grazie al tacito appoggio delle potenze alleate. Parole come rivoluzione sono state usate per giustificare, da una parte, azioni violente contro categorie di persone che dovevano essere soppresse, da mettere nella “pattumiera della storia” come affermava Leon Trotsky a proposito dei menscevichi, mentre dall’altra avanzavano lo sciovinismo, il darwinismo sociale e le teorie razziali al centro dell’ideologia di Hitler.
L’ascesa del nazionalismo
La mescolanza di etnie che caratterizza il centro dell’Europa rendeva impossibile espandere oltre un certo limite i propri territori e tracciare confini che contenessero i diversi popoli negli stati che si sono formati dopo la dissoluzione degli imperi perché erano anch’essi, sottolinea Gerwarth, dei piccoli imperi con una maggioranza che governava sulle minoranze. Come ci ricorda lo scrittore austriaco Joseph Roth, cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di differenti origini con lingue, religioni e tradizioni diverse, nel romanzo La marcia di Radetzky il conte Chojnicki afferma che la nuova religione è il nazionalismo, predice il crollo dell’impero asburgico nel 1918 e, con amarezza, incolpa le inquiete minoranze di volersi rendere autonome all’interno di piccoli stati. Non è un caso che Roth e altri cittadini ebrei agli inizi degli anni trenta, poco prima dell’avvento del nazismo, guardassero con nostalgia alla scomparsa dell’impero multietnico che aveva garantito loro e alle altre minoranze un livello di tolleranza molto superiore a quello degli stati-nazione che hanno in seguito preso il suo posto.
Rivoluzioni e controrivoluzioni
Dal Baltico al Mar Nero una tragica sequenza di rappresaglie ha causato milioni di morti cui si aggiungono deportazioni, azioni di pulizia etnica, massacri, rivoluzioni, controrivoluzioni, pogrom contro gli ebrei, espulsione di popolazioni dai loro territori che anticipano la “guerra totale” iniziata nel 1939 e hanno devastato il nostro continente. Per Gerwarth, la rivoluzione del 1917 e la sconfitta degli imperi centro-orientali nel 1918 sono fondamentali per comprendere l’esplosione delle manifestazioni di violenza in Europa non solo per le nazioni colpite da questi avvenimenti in cui sono morte quattro milioni di persone, un numero superiore alle perdite provocate dalla Grande guerra in Gran Bretagna, Francia e Stati uniti (anche in Russia si sono contate più vittime di quelle causate dal primo conflitto mondiale) ma soprattutto per la reazione alle rivolte nate in molti stati europei sulla scia dei moti rivoluzionari russi, che hanno portato all’ascesa del fascismo in Italia e di regimi nostalgici in Spagna, Portogallo e Bulgaria. Come dopo l’apertura del vaso di Pandora, tutti i mali si sono riversati all’interno di un’area fondamentale per gli equilibri geopolitici internazionali.
Conseguenze sanguinose
Tra gli altri eventi che hanno maggiormente segnato questa grande tragedia si ricordano i drammatici scontri politici in grandi e influenti città come Vienna, Berlino, Monaco, Budapest, le lotte per la sopravvivenza della nuova Polonia, il conflitto tra la Grecia e la Turchia, culminato nel massacro dei greci e degli armeni a Smirne. In seguito al Trattato di Losanna del 1923, che ha portato a uno scambio delle popolazioni, circa un milione e duecentomila greci, identificati in base all’appartenenza religiosa e non alla lingua o alla cultura, hanno lasciato la Turchia, mentre quattrocentomila turchi, anch’essi individuati solo in base alla religione, hanno abbandonato la Grecia in un contesto drammatico con migliaia di persone morte per fame e annegamento che ricordano l’attuale tragedia delle migrazioni dall’Africa all’Europa. Alla fine della lettura di La rabbia dei vinti, anche se Winston Churchill aveva liquidato con disprezzo questi conflitti come “wars of pygmies” (guerra dei pigmei), si comprende come le sanguinose conseguenze della prima guerra mondiale hanno contribuito a distruggere la civiltà europea in misura maggiore del conflitto stesso. Ma le ostilità non sono finite nel 1923 e non sono nemmeno terminate nel 1945 (alcuni storici l’hanno definita la guerra dei trent’anni del Novecento). In un momento come quello attuale in cui la Federazione russa sembra voler riconquistare le frontiere degli zar e la mappa del Vicino e Medio Oriente disegnato dalle potenze vincitrici, in particolare da Francia e Regno unito con l’accordo di Sykes-Picot del 1916, diventa sempre più sfocata, possiamo affermare con certezza che la prima guerra mondiale non è ancora finita.
________________________________________________________
“L’estrema violenza che ha colpito l’Europa alla fine della Grande guerra ha aperto la strada ai genocidi che si sono susseguiti per quasi un secolo”
“Le cause scatenanti che hanno prolungato la guerra sono il nazionalismo etnico, il rifiuto di una sconfitta umiliante e la Rivoluzione russa”
“Tra il 1917e il 1920 si sono verificati ventisette conflitti, che hanno coinvolto soprattutto l’Europa centro-orientale, il Vicino e Medio Oriente”
“Mentre in Russia Lenin operava brutali repressioni, le milizie tedesche dei Freikorps invadevano gli stati baltici col pretesto di combattere i bolscevichi”
“Le violenze postbelliche hanno causato quattro milioni di morti, più delle perdite della Grande guerra in Gran Bretagna, Francia e Stati uniti”
“Come dopo l’apertura del vaso di Pandora, tutti i mali si sono riversati in una parte dell’Europa fondamentale per gli equilibri geopolitici”
________________________________________________________
ALLE ORIGINI DEL DOMINIO EUROPEO
Il nostro continente ha riscritto la storia degli altri per costruire la sua egemonia
A partire dalla fine della prima guerra mondiale il predominio europeo è entrato in crisi. In modo lento e progressivo il nostro continente ha iniziato a perdere la leadership economica, tecnologica e morale (soprattutto a causa della Shoah) e l’egemonia iniziata nel sedicesimo secolo con la conquista delle Americhe da parte degli spagnoli quando le persone, le cose, le idee e le merci hanno iniziato a circolare per la prima volta a livello planetario. Come scrive Serge Gruzinski nel libro La Machine à remonter le temps(Fayard, pp. 368, 21,90 euro, eBook, 15,99 euro) nel 1517 la riforma di Lutero divide l’Europa e, nello stesso anno, i Conquistadores invadono il Messico, che colonizzano e convertono al cattolicesimo. Ma non si fermano alla occupazione militare e danno inizio a un nuovo modo di scrivere la storia raccontata da un unico punto di vista, quello del vincitore. Per dominare civiltà sconosciute e far prevalere le loro leggi decidono di ricostruire il passato dei nativi e di imporre la loro concezione cronologica del tempo radicalmente diversa dalla rappresentazione cosmologica mesoamericana, con una successione temporale basata sul calendario cristiano e sui concetti di passato, presente e futuro che ha messo ai margini l’immaginario e i modi di espressione indigeni. Nel corso di qualche decennio gli invasori si sono così impossessati delle memorie della civiltà locali collegandole al patrimonio antico e medievale della cristianità. Lo storico Toribio de Benavente Motolinia, uno dei primi missionari francescani arrivati nella Nuova Spagna, stabilisce per esempio delle connessioni tra le piaghe d’Egitto, che Dio ha imposto agli egizi per consentire a Mosè di liberare gli ebrei dalla schiavitù, e la conquista del Nuovo mondo, oppure tra la distruzione di Gerusalemme, la città santa, e quella del Messico in modo da giustificare l’occupazione spagnola attraverso il racconto biblico. È una frattura radicale rispetto al passato. Per la prima volta gli spagnoli riscrivono la storia degli altri e creano un inedito metodo di conquista che sarà seguito dalle altre potenze coloniali e dai vincitori di tutte le guerre nei confronti dei vinti. Con la prima globalizzazione il punto di vista dell’Europa e del cattolicesimo si impone a migliaia di chilometri di distanza. Ancora oggi, cinque secoli dopo, nella maggior parte del mondo la narrazione del passato fa riferimento a quella europea. Gli spagnoli sono infatti riusciti a sincronizzare i diversi continenti sugli stessi modelli di vita e di pensiero, a inserire la maggior parte dei popoli in una stessa storia e a fare apparire questa imposizione come un fatto naturale e valido per tutti.
Alighiero Boetti, Aerei, 1989, inchiostro e acquerello su carta fotografica intelata (particolare), ©Fondation Carmignan, Parigi. Dalla mostra Minimum / Maximum, Venezia, Fondazione Giorgio Cini.