Alighiero Boetti, Mappa, 1990, ricamo su tessuto, dalla mostra Salman Alighiero Boetti, Tornabuoni Arte, Milano, 2021, © SIAE 2020

Un futuro in divenire

Posizione geografica, capacità finanziaria e commerciale, strutture d’avanguardia nelle telecomunicazioni e nei trasporti, identità cosmopolita e influenza geopolitica sono le principali caratteristiche analizzate agli inizi degli anni Novanta del Novecento dalla sociologa statunitense di origine olandese Saskia Sassen per definire in The Global CityNew York, London, Tokyo (Princeton University Press, pp. 480, 43,47 dollari, eBook 26,20 dollari) l’imprinting delle città globali di cui ha sottolineato il ruolo di capitali della finanza. Nella seconda metà degli anni dieci del Duemila in Global Networks, Linked Cities (Routledge, pp.376, 49,45 dollari, eBook 28,65 dollari) l’autrice, i cui studi sono stati seguiti da alcuni dei più importanti architetti e urbanisti internazionali come Rem Koolhaas, Richard Burdett, Norman Foster, Deyan Sudjic e Alejandro Aravena, ha approfondito il ruolo delle megalopoli e a New York, Londra e Tokyo ha aggiunto Hong Kong, Shangai, Dubai, Città del Messico e San Paolo del Brasile. Attraverso un’attenta ricerca socioeconomica ha realizzato uno studio indispensabile per comprendere come le forze economiche e politiche danno forma alle società urbane, scegliere la giusta prospettiva per capire se sia possibile regolarne la crescita attraverso l’architettura, valutare l’impatto delle città contemporanee su fattori sociali ed economici essenziali come la produttività, l’ambiente, la capacità di integrazione e confrontare il modello delle megalopoli con altri possibili sviluppi della città nei paesi che non si trovano al centro dei principali sistemi economici e finanziari transnazionali.

“Polis” vs metropoli
Il successo dei valori occidentali diffusi dopo la caduta del Muro di Berlino nella notte del 9 novembre 1989, che per il politologo statunitense Francis Fukuyama ha rappresentato la vittoria definitiva della democrazia liberale, anche se nel suo saggio più citato La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli, 1992, Utet, pp. 570, 19 euro, eBook, 9,99 euro) in anticipo sui tempi aveva avvertito dei pericoli rappresentati dai suoi possibili sfidanti come i fondamentalismi, i nazionalismi e i “sovranismi”, che però riteneva limitati sia dal punto di vista politico sia da quello territoriale, si è espresso attraverso un’egemonia economica, sociale e culturale di cui le megalopoli rappresentano uno dei simboli più influenti e significativi, che ambiscono a essere diffusi a livello globale. Una supremazia che ha cercato di assimilare le diversità, contestata dai paesi che non condividono una visione del mondo in cui la crescita tecnologica assume un ruolo determinante a scapito dei valori tradizionali, vissuta come un’imposizione, una vera e propria colonizzazione che li condanna a essere marginali nel contesto internazionale. Parallelamente ai modelli delle megalopoli sono così in corso di elaborazione diverse declinazioni della possibile evoluzione della polis, una forma di città che viene contrapposta a quella di metropoli, elemento fondamentale per ritrovare la propria identità geopolitica. Un sistema integrato dove i cittadini pur nelle differenze dei ruoli sociali possono interagire tra loro e con quelli delle altre poleis, che si contrappone a quello unificante delle megalopoli, in cui le persone tendono a perdere la propria identità. Il controllo dei flussi finanziari ha consentito inoltre alle metropoli di assumere una funzione sempre più preminente nell’economia mondiale, che nel sistema unipolare nato dopo la caduta del Muro ha favorito l’Occidente grazie soprattutto al controllo dei corridoi commerciali e all’approvvigionamento di risorse essenziali come l’acqua, i minerali e le fonti energetiche.

Arcipelago aperto, collegato, osmotico
Un diverso modello basato sulla collaborazione e sulla salvaguardia dei diritti fondamentali che va oltre l’idea dominante di città. Un tipo di sviluppo che ha seguito in modo quasi esclusivo il principio della crescita economica in cui i problemi dei diritti e delle diseguaglianze, che segnano un costante incremento, non sono stati tenuti nella giusta considerazione, dove un numero crescente di persone non ha abitazioni adeguate a prezzi accessibili e servizi in campo sociale, scolastico e sanitario. È quindi indispensabile definire dei nuovi piani urbanistici in cui non ci siano più fratture tra un centro ormai gentrificato, quasi esclusivamente riservato alle classi più abbienti e al consumo dei flussi turistici, e una periferia sempre più insidiata dal degrado, ma che prevedano una città aperta, collegata, osmotica dove negli stessi quartieri, dotati di tutti i servizi essenziali, possono convivere culture diverse, con parchi e ampie aree verdi che non solo contribuiscono a ridurre in modo determinante l’inquinamento e a regolare le temperature, ma collegano le diverse isole che compongono il tessuto urbano per formare un arcipelago interconnesso a livello digitale, culturale e sociale.

Capitali finanziari
Attraverso un processo di urbanizzazione che appare irreversibile, per la prima volta nella storia dell’umanità più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Un numero destinato a crescere fino a raggiungere i due terzi (oltre sei miliardi di persone) entro il 2050. Dalla seconda metà del Novecento, quando nel corso dello sviluppo industriale viveva nei centri abitati circa un terzo degli abitanti della Terra, e in modo particolare con le politiche neoliberiste degli anni 80, si è cercato di stimolare l’azione diretta delle comunità locali, dei movimenti sociali e delle organizzazioni non governative nella ricerca di soluzioni ai problemi creati dalla crescita delle città. Più recentemente si è inoltre sviluppata l’attività dei capitali finanziari, che attraverso speciali fondi di investimento sono diventati i protagonisti delle trasformazioni urbane in modo particolare nei paesi in via di sviluppo. Ogni centro segue però un proprio modello determinato da numerose varianti tra cui soprattutto la storia, l’economia, la cultura, la posizione geografica e la nazione di appartenenza. Di conseguenza molte città potranno proseguire e incrementare la propria crescita, mentre altre rischiano il declino o di diventare veri e propri luoghi fantasma. Se la struttura urbana moderna definita dallo sviluppo industriale, era basata su una rigida zonizzazione di aree omogenee divise tra destinazioni residenziali, commerciali e industriali, le attuali città postmoderne si basano invece su modelli più aperti e fluidi.

Due modelli di sviluppo
Secondo una definizione del geografo brasiliano Milton Santos, studioso dell’espansione urbana nei paesi definiti “in via di sviluppo”, a livello globale si sono formate delle “aree luminose” in cui si realizzano le forme più avanzate di organizzazione delle città. Territori che possono contare su ingenti investimenti da destinare alla ricerca scientifica e tecnologica dove si concentrano università, centri di ricerca e sedi di aziende internazionali che si avvalgono di una rete di infrastrutture all’avanguardia con connessioni ad alta velocità e un’intensa mobilità di capitali e persone. A queste aree, elementi fondamentali della rete di informazioni su cui si basa l’attuale modello di crescita “verticale”, Santos contrappone delle “zone opache” dove alle carenze tecnologiche e alla mancanza di sistemi di supporto a un’espansione organica delle diverse connotazioni sociali ed economiche si sono create delle forme di solidarietà “orizzontale”, indispensabili per la loro sopravvivenza e per sostenerne le potenzialità. Una città a misura di tutti i cittadini, come diritto inalienabile senza distinzioni o privilegi di nessun genere. In City Diplomacy: Global Agendas, Local Agreements (The geopolitics of cities, old challenges, new issues), http://repositorio.ipea.gov.br/bitstream/11058/7192/1/The%20geopolitics%20of%20cities_old%20challenges_new%20issues.pdf, p. 150, Renato Balbim, dell’Istituto per la ricerca economica applicata (Ipea) a Orange in California, afferma che ci sono essenzialmente due modelli di città: “One is the city as a whole, as the greatest achievement of humanity, which participates through its utopias, culture, history and also by innovative, participatory and democratic processes. As well as the cooperation between cities build networks and new power structures sustained in a large part by a symbolic capital. On the other hand we have the city that presents itself by their design and morphology, and that invariably excludes and segregates, showing their problems, their urbanity lacks concentration in portions of the city. To overlap these lack conditions the city is sold in a global market and the basic rights become urban services”. (Uno è quello della città vista nel suo insieme come la più grande conquista dell’umanità, che attraverso le sue utopie, la cultura, la storia, i processi innovativi e democratici può contare sulla partecipazione dei cittadini, così come la cooperazione tra le città costruisce reti e nuove strutture di potere basate soprattutto sul capitale simbolico. L’altro modello è quello di una città che per struttura e morfologia esclude, segrega, emargina intere parti del suo territorio e sopperisce a questi problemi con la cessione ai mercati globali dei diritti fondamentali in cambio di servizi urbani). Al modello dominante che marginalizza le aree di disagio si contrappone così un tipo di sviluppo urbano basato sulla collaborazione e la salvaguardia dei diritti fondamentali.

Agglomerati indefiniti
La continuità che ha caratterizzato la struttura delle città occidentali dalla polis greca fino all’inizio dei processi di industrializzazione nella seconda metà del Settecento ha subito una profonda trasformazione tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e una frattura irreversibile nel passaggio dalla forma della metropoli agli agglomerati frammentati e indefiniti delle megalopoli. Un insieme di territori in conflitto permanente in cui è mutato il significato di “diritto alla città” che, ha scritto il filosofo e sociologo francese Henri Lefebvre in Le droit à la ville (Anthropos, Parigi, 1968, traduzione italiana Il diritto alla città, Ombre corte, pp. 138, 14 euro), “si manifesta come forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare” e offre la possibilità di poter accedere alle risorse comuni attraverso la riappropriazione dei tempi e degli spazi del vivere urbano. Una diversa idea di città che consente di immaginare e ricostruire modelli di spazi completamente diversi da quelli definiti dalle imposizioni economiche e politiche, che nel corso del tempo hanno causato periodiche rivolte, dalla Comune di Parigi del 1871 ai movimenti sociali urbani del 1968 a Parigi, Città del Messico, Chicago, alle esplosioni rivoluzionarie in America Latina tra il 2001 e il 2005, alle insurrezioni delle banlieues francesi nel 2005, a Occupy Wall Street nel 2011, fino a quelle di Hong Kong nel 2014, 2019 e 2020. La perdita di influenza della cultura occidentale, che non si trova più al centro del mondo ed è limitata nei suoi confini può inoltre favorire la formazione di nuove tipologie urbane meno rigide e più vicine alle esigenze dei cittadini di diverse culture e condizioni sociali.

Effetti distopici
Le città hanno assunto un ruolo decisivo nel determinare non solo le politiche economiche e sociali, ma anche le relazioni diplomatiche degli stati. Sono i luoghi in cui si concentrano la maggior parte della ricchezza (Singapore, Hong Kong e Macao hanno per esempio un reddito pro capite tra i più elevati al mondo, un prodotto interno lordo e un numero di abitanti superiori a quelli di numerose nazioni) e le maggiori energie intellettuali, si definiscono e sviluppano le capacità di ricerca in campo scientifico e tecnologico. I collegamenti privilegiati tra le grandi aree urbane del pianeta riducono le possibilità degli stati di controllare e dirigere questa fitta rete di relazioni. La loro crescita favorisce inoltre la formazione in tutti i continenti di grandi spazi in connessione tra loro con un fitto interscambio, la creazione di aree economiche comuni e macroregioni che possono essere paragonate a uno stato. Nella Repubblica popolare cinese Jingjinji, dalle abbreviazioni delle municipalità di Beijing (Pechino) e Tianjin e della provincia di Hebei, è una enorme area (la terza dopo quelle del delta del Fiume delle perle e il delta del Fiume azzurro) che unisce le industrie high tech e culturali di Pechino con le strutture del porto di Tianjin, le risorse minerarie di Hebei e quelle agricole di questi tre territori. Un’area urbana di 216 mila metri quadrati quasi equivalente a quella delle dodici maggiori regioni italiane con circa 130 milioni di abitanti, un numero superiore alla somma delle popolazioni di Italia e Francia, in cui l’unificazione delle frontiere facilita il commercio e razionalizza la distribuzione delle risorse, ma che presenta molte criticità tra cui l’eccesso di popolazione, tassi di inquinamento altissimi e un costante aumento dei prezzi soprattutto nel mercato immobiliare. Una realtà con forti effetti distopici improntata alla massima efficienza, che pone gravi problemi dal punto di vista ambientale, della sostenibilità e della coesione sociale, ma con risultati macroeconomici difficili da contrastare.

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“Più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Un numero destinato a crescere fino a raggiungere i due terzi entro il 2050”

“È indispensabile definire dei nuovi piani urbanistici dove non ci siano più fratture tra un centro gentrificato e una periferia insidiata dal degrado”

“Nei territori che non hanno ingenti investimenti per la ricerca scientifica e tecnologica si creano innovativi progetti di solidarietà”

“Collaborazione tra i cittadini e forme di partecipazione urbana sono alcuni dei possibili antidoti a uno sviluppo che emargina parti della città”

 “Per il sociologo francese Henri Lefebvre, la città rappresenta la forma superiore dei diritti, dal diritto alla libertà a quello dell’abitare”

“I collegamenti tra le grandi aree urbane del pianeta riducono le possibilità degli stati di controllare e dirigere questa fitta rete di relazioni”

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DALLA CITTÀ LIQUIDA ALLA CITTÀ INTEGRATA
Riscoprire la memoria dei luoghi per favorire l’incontro tra le persone

Mantenere l’identità dei luoghi contenuta nella memoria storica del territorio, tutelare i diritti umani, i valori simbolici ed etici espressi da una comunità è forse la sfida più importante per consentire alle città uno sviluppo che rispetti i principi fondamentali del vivere civile attraverso un rapporto equilibrato tra risorse naturali ed esigenze sociali e culturali in relazione alla dimensione antropologica del paesaggio e alla stratificazione nel tempo delle diverse civiltà che si sono succedute con un dialogo aperto tra passato e presente. Alla formazione della struttura urbana sviluppata nel corso dei secoli si contrappone però la cultura unificante e omologata imposta dalla globalizzazione e dal predominio di una visione consumistica dell’esistenza, come rivelano le forme architettoniche, spesso autoreferenziali, che nei diversi continenti caratterizzano in misura crescente il nuovo skyline delle città. Edifici realizzati con processi costruttivi ripetitivi, gli stessi materiali e le medesime tecnologie, cellule indistinte di agglomerati senza più confini e punti di riferimento, dove appaiono superati i concetti di centro e periferia, che per secoli hanno definito la città storica con i suoi quartieri, le sue strade, le piazze, aree privilegiate del vivere collettivo in cui i cittadini erano i protagonisti. Luoghi non luoghi senza più punti di riferimento, contenitori di quella che più di vent’anni fa il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha definito la “società liquida”, in cui le persone si trasformano in individui sempre alla ricerca di un’impossibile realizzazione, dove lo spazio pubblico dell’agorà ha perso la sua connotazione ed è stato sostituito dagli ambienti virtuali della comunicazione digitale. Paesaggi urbani non più circoscritti e rassicuranti, ma dominati da spazi ed edifici che hanno perso ogni riferimento con le persone che li abitano e li vivono e non hanno più rapporti con la trama sottile della memoria del luogo. Una condizione di profondo disagio che può risolversi o almeno attenuare le sue criticità solo se si riusciranno a ridefinire e a ricreare spazi dai confini definiti e rassicuranti, che consentano alle persone di incontrarsi e di scambiarsi progetti, idee ed emozioni in una città integrata che riesce a conciliare le esigenze della vita quotidiana con la costante ricerca della possibilità di andare oltre i limiti imposti dall’attuale urbanizzazione.

Alighiero Boetti, Mappa, 1990, ricamo su tessuto, dalla mostra Salman Alighiero Boetti, Tornabuoni Arte, Milano, 2021, © SIAE 2020
Alighiero Boetti, Mappa, 1990, ricamo su tessuto, 
dalla mostra Salman Alighiero Boetti, Tornabuoni Arte, 
Milano, 2021, © SIAE 2020
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