Nei social network vince l’autocensura

Grazie ai documenti top secret passati nel giugno 2013 da Eward Snowden con il supporto di WikiLeaks ai giornalisti di The Washington Post e The Guardian, i cittadini degli Stati uniti e del mondo intero hanno scoperto che tutte le loro comunicazioni fatte attraverso telefonate, email, chat, video, ricerche su internet, o movimenti delle carte di credito possono essere intercettate dal programma di sorveglianza di massa della NSA (National Security Agency) la più grande e tecnologicamente avanzata organizzazione di spionaggio mai esistita. Questa consapevolezza ha suggerito ai cittadini americani di essere più prudenti? Elizabeth Stoycheff, assistant professor di giornalismo e new media alla Wayne State University è partita da questa domanda per realizzare una ricerca online, pubblicata su Journalism & Mass Communication Quarterly prima della decisione del governo Usa nell’agosto scorso di effettuare bombardamenti contro l’autoproclamato Stato islamico (Daesh) in Libia, dove ha selezionato 250 persone cui ha chiesto di rispondere a un sondaggio sul loro rapporto con i media, sulle loro opinioni politiche e sul loro comportamento dopo aver saputo di essere controllati. Successivamente ha inviato loro un falso articolo sulla decisione del governo Usa di non sospendere gli attacchi aerei dopo quelli in Siria e Iraq contro l’Isis e ha chiesto di rispondere come se fosse stato postato su un social network. Ad alcuni dei partecipanti è stato inoltre inviato un messaggio con cui si ricordava che le opinioni potevano essere intercettate dalla NSA.

Si afferma il pensiero prevalente
Secondo Elizabeth Stoycheff questo studio è il primo a fornire le prove che i programmi di sorveglianza sul web minacciano la libera espressione delle opinioni minoritarie, contribuendo così a rafforzare il pensiero dominante. Per la maggioranza dei partecipanti alla ricerca, la probabilità di esprimere la propria opinione liberamente diminuisce infatti in modo sensibile se sono consapevoli che i loro messaggi vengono monitorati. È inoltre interessante constatare che le persone che si sono dichiarate più favorevoli alla sorveglianza da parte della NSA, si sono dimostrate anche quelle più conformiste e hanno sempre evitato di esprimere il proprio punto di vista quando sapevano di essere in inferiorità numerica.

Anche gli scrittori si mettono il bavaglio
La ricercatrice ha poi dichiarato a  The Washington Post: “It concerns me that surveillance seems to be enabling a culture of self-censorship because it further disenfranchises minority groups. And it is difficult to protect and extend the rights of these vulnerable populations when their voices aren’t part of the discussion. Democracy thrives on a diversity of ideas, and self-censorship starves it” (Mi preoccupa sapere che i sistemi di sorveglianza favoriscono comportamenti di autocensura perché questi atteggiamenti emarginano ulteriormente i gruppi di minoranza. È difficile proteggere ed estendere i diritti dei gruppi più vulnerabili quando le loro voci non si fanno sentire. La democrazia per crescere e prosperare ha bisogno della diversità e del confronto delle idee, mentre l’autocensura le impedisce di affermarsi). Ma i risultati di questo studio, come dimostrano numerose recenti indagini, non sono isolati. Nel 2014 il think tank americano di ricerca indipendente Pew Research Institute era arrivato a conclusioni simili dopo aver studiato il modo con cui le persone discutono in pubblico sui sistemi di sorveglianza utilizzati dalla National Security Agency. Se l’86 per cento di chi aveva partecipato al sondaggio era disposto a esprimere le proprie idee al di fuori della rete, in famiglia, con gli amici, in riunioni, assemblee e tra colleghi di lavoro, meno della metà (il 46 per cento) si dichiarava disponibile a discuterne su Facebook o Twitter. Per i ricercatori, i social media non rappresentano quindi dei forum in cui manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ambienti dove le opinioni divergenti vengono smussate o evitate. A questo si aggiunge un’altra considerazione sorprendente in cui si afferma che chi utilizza regolarmente i social network si mostra meno disponibile a fare affermazioni non convenzionali anche al di fuori della rete. Ma sul web l’autocensura non risparmia neppure gli scrittori. Secondo la ricerca Global Chilling del PEN America, un’organizzazione di autori in prima linea nella salvaguardia della libertà di espressione, basata su un sondaggio sui sistemi di controllo che ha coinvolto circa 800 autori di tutto il mondo emerge una realtà preoccupante: “The levels of self-censorship reported by writers living in democratic countries are approaching the levels reported by writers living in authoritarian or semi-democratic countries” (I livelli di autocensura rivelati dagli scrittori che vivono in paesi democratici sono simili a quelli manifestati dagli autori che abitano in stati autoritari o dove non sono garantite tutte le libertà fondamentali). Tra gli scrittori che lavorano in una nazione libera, secondo la classificazione di Freedom House, l’organizzazione internazionale con sede a Washington che valuta il grado di democrazia in ciascun paese, più di uno su tre (il 34%) afferma di aver evitato di parlare o di scrivere su argomenti sensibili per il timore di essere controllato.

Paura di manifestare le proprie idee
Questo comportamento di autocensura, definito Chilling effect, si manifesta quando una persona teme o rifiuta di esercitare la sua libertà di espressione per evitare possibili sanzioni civili o penali. Vincent Toubiana, membro della Federal Trade Commission, l’organizzazione per la protezione dei consumatori americani ed esperto di Information Technologies alla francese CNIL (Commission Nationale de l’Informatique et des Libertés) ha utilizzato la parola obfuscation (oscuramento) per descrivere l’avversione a utilizzare per le proprie ricerche su Google termini come “bomba” o “pornografia infantile” anche se, ha dichiarato all’Obs: “En réalité quelqu’un qui cherche vraiment des images pédophiles ne passera probablement pas par Google. Cette recherche corresponde plutôt à une recherche d’information sur ce sujet. Pourtant, il y a une forme d’autocensure, de ‘chilling effect’” (Chi vuole servirsi di immagini di pedofilia molto probabilmente non si rivolge a Google, che è soprattutto utilizzato da chi è alla ricerca di informazioni su questo argomento. Di conseguenza siamo in presenza di una forma di autocensura, di “Chilling effect”). Atteggiamento confermato dalla testimonianza anonima di uno degli autori citati nel rapporto del PEN: “As a final indication of the way the current ‘surveillance crisis’ affects and haunts us, I should say that I have had serious misgivings about whether to write the above and include it in this questionnaire” (Per far comprendere come il timore dei sistemi di controllo ci colpisce e perseguita, devo ammettere di aver avuto seri dubbi di dichiarare quello che veniva richiesto dal questionario).

La spirale del silenzio
L’autocensura non è solo un problema di surveillance crisis, di timore dei sistemi di controllo. Sul web si riproducono infatti dei fenomeni già studiati prima della diffusione dei social network. Il fatto che molte persone preferiscono non esprimere il proprio pensiero quando sono consapevoli che non è prevalente, è un fenomeno già conosciuto e studiato come la “spirale del silenzio”, una teoria sviluppata negli anni ‘70 del Novecento dalla sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann, fondatrice dell’Istituto di demoscopia di Allenshbach. La teoria analizza il potere di persuasione dei media, in particolare della televisione sull’opinione pubblica, la loro capacità di enfatizzare le idee prevalenti e ridurre al silenzio i punti di vista minoritari. Per paura di riprovazione e isolamento sociale, le persone sono così inibite dal manifestare liberamente le proprie opinioni, se percepite come contrarie a quelle espresse dalla maggioranza. Per decidere come comportarsi valutano quindi attentamente quali sono le tendenze dominanti negli ambienti in cui vivono o con cui hanno rapporti di lavoro e, nella maggior parte dei casi, decidono di non esporsi. Sul web i weak ties, i “legami deboli”, che secondo il sociologo americano Mark Granovetter si formano oltre le relazioni più strette della cerchia dei familiari e degli amici e hanno spesso maggiore influenza perché consentono un allargamento dei propri contatti, costituiscono un nuovo gruppo sociale in cui attraverso post, tweet e blog si condividono opinioni e commenti destinati a restare per sempre online. In questo contesto dove il desiderio di dialogo si unisce alla permanenza delle proprie idee, la “spirale del silenzio” può esercitare una influenza ancora maggiore. Questi studi, anche se condotti in modo scientifico, sono realizzati su campioni ristretti di persone e di conseguenza devono devono essere valutati con precauzione, ma indicano che attraverso il web è in atto una possibile profonda mutazione dei nostri comportamenti e dei legami sociali.

 

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“Secondo la ricercatrice americana Elizabeth Stoycheff i programmi di sorveglianza sul web minacciano il pensiero critico e la circolazione delle idee”

“I livelli di autocensura degli scrittori che vivono in paesi democratici sono simili a quelli denunciati dagli autori che abitano in stati autoritari”

“Il Chilling effect si manifesta quando una persona teme o rifiuta di esercitare la sua libertà di espressione per evitare possibili sanzioni civili o penali”

“Sul web si riproducono e si amplificano i fenomeni di conformismo sociale già studiati negli anni ‘70 prima della diffusione dei social network”

“Prima di decidere come comportarsi molte persone valutano le opinioni dominanti negli ambienti in cui vivono o con cui hanno rapporti di lavoro”

“Il web amplifica la ‘spirale del silenzio’ e favorisce una possibile profonda mutazione dei nostri comportamenti e dei legami sociali”

 

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Viviamo in un mondo sotto controllo
Perché viene sempre più attaccato il pensiero libero

Ogni giorno vengono pubblicati miliardi di tweet, post e blog che ci danno notizie in tempo reale, abbiamo accesso a internet dove possiamo informarci su Wikipedia, basta un clic e con il tablet o lo smartphone sfogliamo i giornali di tutto il mondo… il momento storico che stiamo vivendo è stato definito l’età dell’oro dell’informazione. Ma è davvero così o esprimere le proprie opinioni diventa sempre più pericoloso? Anche se quasi tutti gli stati hanno leggi che dovrebbero salvaguardare la libertà di pensiero e di parola, ci sono tre motivi per ritenere che il pensiero libero è sotto attacco:
1. Aumento della repressione. Molti governi hanno ripreso a fare una serie di controlli in vigore durante la guerra fredda e ne hanno introdotto dei nuovi. Nella Federazione russa, per esempio, le reti televisive, i siti internet e la stampa sono sotto stretta sorveglianza, molti giornalisti scomodi vengono mandati nei campi di lavoro e alcuni sono stati uccisi. Il blogger Vadim Tyumentsev è stato condannato a cinque anni di prigione per aver criticato le azioni della Russia in Ucraina. La Cina, reprime le campagne per l’indipendenza del Tibet, controlla l’informazione e i social media. Nelle università l’arresto di molti dissidenti ha preso il posto del libero dibattito e viene ordinato agli economisti di fare previsioni in linea con le dichiarazioni del governo. Nel Vicino Oriente e in Nord Africa, con l’eccezione della Tunisia, dopo le primavere arabe i giornalisti sono in costante pericolo.
2. Crescita degli omicidi. In Messico vengono torturati o assassinati molti reporter che indagano su crimini e corruzione. I jihadisti di Daesh giustiziano chi ritengono abbia offeso la loro presunta fede e in Bangladesh viene perseguitato chi ha idee o orientamenti sessuali non convenzionali.
3. Uso distorto del politically correct. Persone e gruppi sociali hanno il diritto di non essere offesi, ma un’interpretazione rigida di questo concetto può favorire denunce ingiuste. L’università dovrebbe essere il luogo per eccellenza dove imparare a formarsi un pensiero libero, ma anche molti atenei occidentali, specialmente negli Usa, danno precise indicazioni su come comportarsi e cosa dire riguardo temi sensibili come sesso, razza o religione.

 

Eric Pickersgill, Removed. Dalla mostra alla Rick Wester Fine Art, New York, 2016.

Eric Pickersgill, Removed. Dalla mostra alla Rick Wester Fine Art, New York, 2016.

 

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