Siamo agli inizi di una nuova epoca?

Molto probabilmente lo scorso mese di agosto sarà ricordato soprattutto per un evento straordinario avvenuto a Shishmaref, un piccolo villaggio eschimese a nord dello stretto di Bering, i cui abitanti sono costretti da tempo a spostare numerose abitazioni al centro dell’isola per evitare che vengano sommerse dalle acque del mare. Attraverso un referendum hanno espresso la volontà di traslocare le loro case, gli edifici pubblici e le attività produttive in un’altra zona dell’Alaska non colpita dall’innalzamento del livello dell’acqua, anche se questo significa abbandonare le terre dove abitano da più di quattro secoli. Nonostante il referendum sia stato di tipo consultivo e la vittoria non schiacciante (94 voti contro 78), l’iniziativa solleva dei problemi che vanno oltre la sopravvivenza di questa comunità. Shishmaref non è infatti l’unica località che rischia di sparire a causa del riscaldamento globale. Secondo il governo americano, che ha commissionato uno studio sui villaggi a rischio al Governement Accountability Office, sezione investigativa del Congresso degli Stati uniti, sono in pericolo altri 31 villaggi e almeno 200 avranno gli stessi problemi nei prossimi anni. A questo si aggiunge la difficoltà di reperire i fondi per gli spostamenti, che si prevedono molto costosi. In pochi decenni la temperatura dell’acqua è aumentata di quattro gradi centigradi e, di conseguenza, la banchisa che circonda e protegge l’isola si è assottigliata, si forma sempre più tardi e non protegge più la costa, che negli ultimi 40 anni è arretrata di 60 metri, dalle tempeste d’autunno. Le onde scavano e sciolgono progressivamente il fragile litorale di permafrost, che costituisce circa l’80 per cento dell’isola. A partire dalla metà del secolo scorso gli abitanti hanno provato a resistere realizzando dighe con decine di migliaia di sacchi di sabbia, bidoni e blocchi di cemento, ma tutti gli sforzi per fermare l’avanzata delle acque sono stati inutili. Nonostante il mare sia fonte di vita per questi eschimesi inuit, le cui principali attività sono da secoli la pesca e la caccia alla foca, avventurarsi tra i ghiacci è sempre più rischioso.

Come canarini nelle miniere di carbone
Se la la cattura dei pesci iniziava nel mese di ottobre, ora bisogna attendere dicembre e questo si ripercuote negativamente sull’economia del villaggio. Anche la fauna dell’isola sta subendo profondi mutamenti, molti pesci e animali come l’orso bianco sono scomparsi mentre altri hanno fatto la loro apparizione. Ma questi eventi non sono limitati al circolo polare artico, anche l’Antartide inizia ad avere problemi come dimostra la decisione del governo australiano di allontanare i ricercatori e gli scienziati che abitano l’isola di Macquarie, minacciata dall’innalzamento del livello delle acque, per riportarla alla condizione originaria e salvare il suo habitat di animali rari come gli elefanti marini e i pinguini reali. Fenomeni che vanno al di là delle difficoltà dei luoghi che ne sono colpiti. Per monitorare lo stato di salute del nostro pianeta, Shishmaref assume così lo stesso ruolo dei canarini che nel secolo scorso accompagnavano i minatori nelle miniere di carbone. Questi piccoli animali, molto sensibili alle esalazioni di gas come il grisù, in caso di svenimento o morte segnalavano la presenza di emissioni tossiche ai i minatori, i quali riuscivano ad allontanarsi prima di rimanere gravemente intossicati o travolti da un’esplosione.

L’azione negativa delle attività umane
Anche se l’avvento dell’umanità rappresenta solo una minima frazione della storia del nostro pianeta, che risale a quattro miliardi e seicento milioni di anni fa, i comportamenti dei suoi abitanti stanno provocando mutamenti simili a quelli che hanno causato l’avvicendamento delle epoche geologiche fino all’olocene, il periodo che ci ha preceduto e che risale a 11700 anni fa. Al Congresso internazionale di geologia tenuto recentemente a Città del Capo, il segretario dell’Awg, l’Anthropocene Working Group, che riunisce i geologi dell’Università di Leicester in Gran Bretagna, ha affermato che la Terra è entrata in una nuova era, l’antropocene, la prima in cui le attività umane sono state in grado di modificare l’atmosfera e alterare il suo equilibrio. Il termine Antropocene, utilizzato per la prima volta alla fine degli anni ‘80 dal biologo Eugene Stoermer, è stato ripreso e divulgato nel 2000 dall’olandese Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica. La decisione finale di sancire questa trasformazione spetta alla Commissione internazionale di stratigrafia (Ics), il comitato permanente dell’International Union of Geological Sciences (Iugs), che si occupa dei problemi a livello globale relativi alla stratigrafia e alla geocronologia, la quale dovrà stabilire se ci sono segni inequivocabili dell’inizio dell’antropocene.

Alla ricerca del “chiodo d’oro”
Come ha scritto Colin Barras su New Scientist, “For every boundary between two geological periods, epochs or ages there is – or eventually will be – a Global Boundary Stratotype Section and Point (GSSP), sometimes called a golden spike. It is the place that researches have settled on as providing the best snapshot of our world lurching from one named chunk of geological time into the next (Per ogni confine tra due periodi, epoche o ere geologiche esiste o esisterà una sezione o punto stratigrafico globale (Gssp) chiamato “chiodo d’oro”. È il luogo in cui secondo le ricerche si può definire nel modo migliore il passaggio da un tempo geologico al successivo). Tra laghi, bacini marini anossici e strati di ghiaccio le zone possibili sono numerose. Il passaggio all’antropocene è recente (si fa risalire il suo inizio agli anni ‘50 del Novecento, anche se alcuni scienziati anticipano la data al XVIII secolo durante la prima rivoluzione industriale) e questo rende più difficile l’identificazione. Deve essere inoltre una zona segnata da un evento definito, legata a un periodo preciso e in cui i dati non rischiano di essere distrutti. In uno studio pubblicato su Science sono sette le prove di questa nuova epoca: le esplosioni atomiche che lasciano un’impronta radioattiva sulla Terra, i combustibili fossili i quali causano l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera, i nuovi materiali come l’alluminio, il cemento e la plastica, l’impronta geologica causata da attività minerarie, deforestazione, urbanizzazione, attività agricole estensive, erosioni costiere, perforazioni, i fertilizzanti che hanno raddoppiato i livelli di fosforo e azoto nel suolo, il riscaldamento globale e le estinzioni di massa con tre quarti di specie destinate a scomparire nei prossimi secoli.

I segni del mutamento
Un intervallo di tempo segnato anche dalla produzione shale gas, il metano prodotto dal fracking, cioè dalla frantumazione di scisti argillosi, da un forte aumento della popolazione mondiale, dalla riduzione della biodiversità, dall’occupazione di quasi il 50 per cento delle terre emerse, dallo sfruttamento delle acque dolci e delle riserve ittiche, che hanno provocato gravi alterazioni degli equilibri naturali. L’International Union of Geological Sciences avrà tre anni di tempo per effettuare analisi sui sedimenti dei laghi, carotaggi nei ghiacciai antartici e prelievi di coralli per ottenere le prove del passaggio all’antropocene, il cui inizio dovrebbe corrispondere all’aumento di plutonio radioattivo prodotto dalle esplosioni nucleari o alla comparsa di materie plastiche negli strati di fango sui fondali marini o nei laghi. Secondo Colin Waters del British Geological Survey e dell’Anthropocene Working Group, il “chiodo d’oro” ha buone possibilità di trovarsi nel bacino di Santa Barbara in California o di Cariaco al largo della costa del Venezuela. Entrambi accumulano a velocità costante sedimenti che probabilmente contengono tracce di plutonio e che quasi certamente non saranno modificati dall’attività umana o da altri fattori. Altre zone utili per rintracciare il “chiodo d’oro” potrebbero essere i ghiacciai della Groenlandia o le grotte dell’Italia del nord dove si accumula lo speleotema, il deposito di pietra calcarea contenente isotopi di carbonio che testimoniano l’impatto dell’attività umana sull’atmosfera. Per Ian Zalasiewicz dell’Università di Leicester il luogo con forse maggiori possibilità di identificare l’origine dell’antropocene è la barriera caraibica, grazie ai Porites, coralli dalla crescita rapida, che mostrano in modo evidente le conseguenze del riscaldamento globale e dell’acidificazione degli oceani.

Guerre globali
I mutamenti climatici non rappresentano solo una minaccia all’ecosistema ma sono sempre più spesso all’origine di molti conflitti sociali e politici. Nel libro The Conflict Shoreline: Colonialism as Climate Change in the Negev Desert (Steidl, pp. 96, 50 euro), l’architetto israeliano Eyal Weizman e il fotografo americano Fazal Shiekh ci fanno comprendere, attraverso le drammatiche distruzioni del villaggio palestinese di Al Araquib, che le nuove frontiere sono quelle delle condizioni climatiche determinate dal neocolonialismo. Come Al Araquib anche Daraa, città simbolo della guerra civile siriana, e vaste zone della Libia, di Iraq, Mali, Yemen, Afghanistan, Pakistan si trovano infatti su quella che Weizman definisce threshold of the desert (linea dell’aridità), caratterizzata da siccità, scarsità d’acqua e temperature torride. Come ha scritto Naomi Klein sulla London Review of Books, “the climate crisis – by presenting our species with an existential threat and putting us on a firm and unyielding science-based deadline – might just be the catalyst we need to knit together a great many powerful movements, bound together by a belief in the inherent worth and value of all people and united by a rejection of the sacrifice zone mentality, whether it applies to peoples or places” (la crisi climatica, che costituisce una minaccia alla nostra specie e ci pone di fronte a scadenze inevitabili definite su base scientifica, può diventare il catalizzatore per unire molti movimenti legati dalla fede nel valore di tutti gli esseri umani e dal rifiuto dell’idea che esistano luoghi o popolazioni sacrificabili). Per risolvere questi gravi problemi è quindi indispensabile trovare soluzioni che consentano di abbattere le emissioni e, contemporaneamente, creare nuovi posti di lavoro e maggiore giustizia sociale.

 


 

“Non solo il circolo polare artico, anche l’Antartide inizia ad avere problemi dovuti all’innalzamento del livello delle acque dei mari”

“La barriera caraibica mostra in modo evidente le conseguenze del riscaldamento globale e dell’acidificazione degli oceani”

“I nostri comportamenti stanno provocando grandi mutazioni, simili a quelle che hanno determinato il passaggio da un’epoca geologica all’altra”

“L’occupazione di quasi la metà delle terre emerse e la riduzione della biodiversità hanno causato profonde alterazioni degli equilibri naturali”

“La Commissione internazionale di stratigrafia dovrà stabilire quali sono i segni inequivocabili dell’inizio dell’antropocene”

“I cambiamenti climatici sono sempre più spesso all’origine dei principali conflitti sociali e politici che caratterizzano il nostro tempo”

 

 

Francesco Clemente, Tree of Life, 2013-14, tecnica mista su tela. Collezione privata. Dalla mostra Fiori d’inverno a New York, Complesso museale di Santa Maria della Scala, Siena, 2016.

Francesco Clemente, Tree of Life, 2013-14, tecnica mista su tela. Collezione privata. Dalla mostra Fiori d’inverno a New York, Complesso museale di Santa Maria della Scala, Siena, 2016.

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