Ripensare il welfare state

Il lavoro è l’attività fondamentale che oltre a consentire l’acquisto di beni e servizi, dà a ogni persona la possibilità di definire la propria identità e di avere un posto nella società. Ma da alcuni anni il mondo della produzione sta subendo una progressiva trasformazione che lo rende una realtà sempre meno sicura e generosa. Dagli inizi del secolo, in quasi tutti i paesi occidentali la crescita economica non è più riuscita a garantire aumenti salariali equi che potessero consentire, se non il miglioramento, almeno il mantenimento del potere d’acquisto da parte dei lavoratori aumentando così le disuguaglianze. Dopo la crisi iniziata alla fine del 2006 che ha portato all’attuale grande stagnazione, bussa alla porta con sempre maggiore frequenza anche la minaccia di un futuro dominato dalla robotica e dalle nuove tecnologie le quali insidiano il lavoro e provocano grande instabilità e incertezza nelle relazioni sociali. Per cercare di risolvere questi problemi parte dell’opinione pubblica chiede alla classe politica di di dare l’avvio a iniziative che consentano di garantire un reddito minimo come sostituzione o incremento della retribuzione.

Maggiore equità sociale
Nel giugno dello scorso anno i cittadini svizzeri sono stati chiamati a esprimersi attraverso un referendum sulla possibilità di introdurre un’erogazione monetaria mensile a tutti i residenti indipendentemente dal fatto che avessero un lavoro o meno. Nei paesi dell’Unione europea, a eccezione di Bulgaria, Grecia, Croazia e Italia sono presenti forme di tutela per le fasce più deboli della popolazione. In Finlandia è iniziata la sperimentazione del reddito di base ai disoccupati e in Olanda si stanno valutando iniziative analoghe. Nel nostro paese il Movimento 5 stelle sta facendo del reddito di cittadinanza uno dei punti più qualificanti del suo programma. Questa forma di sostegno, a differenza del reddito di base universale destinato a tutti, prevede aiuti solo per le persone a rischio di povertà con vincoli per il beneficiario tra cui l’iscrizione ai Centri per l’impiego pubblici, la partecipazione a percorsi di formazione o riqualificazione, la disponibilità a seguire progetti sociali e l’obbligo di accettare un lavoro scelto tra un massimo di tre proposte. Si tratta di un’iniziativa in controtendenza rispetto ai modelli tradizionali di welfare basati su modelli e principi i quali tendono a garantire un aiuto soprattutto a chi si trova in una condizione che impedisce l’attività lavorativa per limiti di età, malattia, infortunio o disoccupazione. Ma i cambiamenti già in atto o in via di realizzazione nel mondo del lavoro stanno progressivamente limitando e svuotando di significato questi sostegni finora ritenuti indispensabili per gli equilibri sociali e il benessere collettivo.

Più occasioni di lavoro
Secondo numerosi studiosi di politica economica con l’introduzione massiccia di nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale diventa sempre più evidente il rischio di uno stato diffuso di disoccupazione spesso permanente per gran parte della popolazione. Gli economisti dell’Università di Chicago Loukas Karabarbounis e Brent Neiman hanno per esempio stimato che almeno la metà della perdita di posti di lavoro iniziata alla fine degli anni Ottanta del Novecento e accentuata nel periodo della Grande recessione è stata causata, più che dalla globalizzazione, dal maggior utilizzo di software e computer. Una situazione che oltre a minacciare le basi stesse su cui si fonda la nostra struttura sociale aumenta il rischio di instabilità, l’insorgere di movimenti di protesta e rivolte. L’introduzione di un reddito di cittadinanza potrebbe risolvere molti di questi problemi e apportare numerosi benefici. Disporre ogni mese di una di una somma sicura anche se di entità non elevata, oltre a essere una misura di equità, aiuta a infondere sicurezza psicologica e consente di non far sentire nessuno ai margini. Dal punto di vista economico può inoltre dare una spinta importante alla ripresa dei consumi interni, che in parte ripaga il costo dell’iniziativa, facilitare l’avvio di nuove attività e, grazie alla crescita della domanda conseguente al maggior reddito disponibile, offrire maggiori possibilità lavorative.

Un falso allarme?
Da parte di chi è contrario all’introduzione di un reddito di base o di cittadinanza si afferma che le previsioni di un drastico calo dei rapporti di lavoro come conseguenza dell’avanzamento del progresso tecnologico si sono finora dimostrate sbagliate e alle perdite iniziali è sempre seguita la creazione di nuovi impieghi. Il timore riguardo la progressiva diffusione di intelligenza artificiale e all’adozione di robot potrebbe quindi rivelarsi un falso allarme. Viene così messa in dubbio una ricerca di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation (www.oxfordmartin.ox.ac.uk/) secondo la quale negli Stati uniti potrebbe essere automatizzato il 47 per cento delle attività produttive entro i prossimi due decenni, cui si contrappone la previsione dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries (www.oecd-library.org/) di una perdita di posti di lavoro del 9 per cento.

Aumento della pressione fiscale
Ci si chiede quindi se sia giusto adottare questa nuova politica di welfare sulla base di dati contraddittori e di una necessità non ancora provata a fronte di costi certi e ingenti. Si afferma infatti che questo tipo di misura economica assorbirebbe un numero così elevato di risorse portando a un inevitabile aumento della pressione fiscale e a una diminuzione delle prestazioni nei campi della sicurezza sociale e delle pensioni. Senza dimenticare che il reddito di base rischia di creare due diverse categorie di cittadini, da una parte chi può contare su un’entrata sicura senza doversi confrontare con le difficoltà del mercato del lavoro (anche se per un periodo limitato di tempo e a condizioni ben definite, ndr), dall’altra una maggioranza di persone le quali continuano a lottare per mantenere il proprio livello economico e che con le tasse da loro versate consentono la sostenibilità di tutto lo stato sociale. Si aggiunge che questa scelta potrebbe rendere impossibile ai paesi più ricchi ed evoluti mantenere le frontiere aperte incoraggiandoli a chiudere le porte agli immigrati o a creare una cittadinanza di serie B, la quale non avrebbe diritto a questo tipo di sostegno. Si afferma infine che di fronte a tutti questi pericoli è certamente più utile cercare di far funzionare al meglio i servizi di welfare state attualmente presenti nei diversi paesi senza stravolgere le loro finalità, grazie alla concessione di sussidi salariali più generosi, alla riduzione delle imposte sui redditi da lavoro e a investimenti nelle infrastrutture pubbliche e sociali che aumenterebbero i posti di lavoro e garantirebbero un migliore e più diffuso tenore di vita.

Creare un circolo virtuoso
Tesi contestate dai fautori del reddito di cittadinanza, che ne mettono invece in rilievo i benefici per l’intera economia. Nel nostro paese, per esempio, il Movimento 5 stelle afferma che la proposta di dare un reddito di 780 euro mensili, una cifra appena al di sopra della soglia di rischio di povertà a circa nove milioni di persone prevede un costo iniziale, che tende a diminuire di anno in anno, di quasi 17 miliardi di euro di cui 15,5 miliardi da destinare al sostegno economico e 1,4 miliardi per rafforzare i Centri per l’Impiego e per la creazione di nuova impresa e start up innovative. Come viene precisato: “Il costo del reddito di cittadinanza rappresenta solo l’1% del Pil nazionale. Inoltre, il reddito di cittadinanza essendo anche una manovra finanziaria aiuterebbe ad aumentare i consumi delle famiglie, ad aumentare la domanda interna (dal 4% al 22%), i ricavi delle piccole e medie imprese e la domanda di lavoro di personale qualificato diretto a salvaguardare le eccellenze produttive del nostro paese. Lo stato, dunque, a fronte di un costo pari al 1% del Pil e del 2% della spesa pubblica, beneficerebbe di maggiori entrate sia indirette (come l’Iva) sia dirette (come i contributi sociali e trattenute in busta paga), oltre a contribuire all’aumento del Pil che porterebbe anche a una diminuzione del debito interno”. A differenza da quanto viene sostenuto da chi è contrario al reddito di cittadinanza si potrebbe insomma generare in tempi brevi un vero e proprio circolo virtuoso a favore di tutta la società e dello stato.

 

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“A differenza del reddito di base universale destinato a tutti, quello di cittadinanza prevede aiuti solo per le persone a rischio di povertà”

“Disporre ogni mese di un’entrata sicura aiuta a uscire da condizioni di disagio e può facilitare l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali”

“Avere un reddito crea numerosi effetti positivi come la ripresa dei consumi interni e un sensibile incremento delle occasioni lavorative”

“L’introduzione di questa misura economica potrebbe però portare a un aumento notevole delle tasse a carico della popolazione che lavora”

“Chi è contrario alla concessione di un reddito a chi si trova in difficoltà dice che i benefici sono da dimostrare, mentre i costi sono certi ed elevati”

“Chi è favorevole al reddito di cittadinanza sottolinea che può generare una serie di impulsi positivi a favore della società e dello stato”

 

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Il declino di un modello vincente
Con la crisi dei partiti progressisti si sta erodendo l’idea di stato sociale

Secondo un’analisi per Policy Network di Sara B. Hobolt dell’European Institute della London School of Economics and Political Science e Catherine de Vries, docente di Politiche economiche all’Università di Oxford dal titolo Challenger parties and the decline of European left (La sfida dei partiti e il declino della sinistra europea) nel nostro continente la socialdemocrazia sta attraversando una crisi senza precedenti. Anche se non tutti i partiti della sinistra hanno avuto un crollo paragonabile a quello del Pasok greco calato in soli sei anni dal 44 al 6 per cento, i segni del declino di questa idea politica sono molto sensibili sia rispetto al numero di voti persi sia ai sondaggi e all’invecchiamento del suo corpo elettorale. In Austria, Danimarca, Francia, Germania, e Regno unito (l’Italia ha seguito un percorso in parte diverso) la sinistra è passata da una media del 41 per cento dei primi anni Ottanta all’attuale 28 per cento. Nonostante la capacità dimostrata finora di interpretare e adattarsi ai mutamenti politici, il tramonto del ciclo socialdemocratico, o come prevedeva vent’anni fa il sociologo Ralf Dahrendorf la fine dopo la realizzazione di gran parte dei suoi obiettivi, sembra oggi molto probabile causa le crescenti difficoltà a sostenere le sfide contemporanee rappresentate dal lavoro sempre più flessibile, dalla platform economy (Uber, Amazon, eBay ecc.) che sta via via sostituendo le fabbriche, dai mercati finanziari ibridi, dal crowdfunding e dai consumi collaborativi basati su condivisione, baratto, prestito, noleggio e scambio. Significativo il caso della Danimarca in cui politiche sociali molto avanzate e difficilmente replicabili in altri paesi come la flexicurity non sono bastate a contenere l’avanzata del Dansk Folkeparti, che ha raggiunto il 33,7 per cento dei voti rispetto al 26 per cento dei socialdemocratici, diventando il primo partito pur senza conquistare il governo. Un programma rigido basato su una minore tassazione, protezionismo e blocco degli immigrati ha prevalso sull’idea di una società dinamica in cui alla facoltà delle imprese di assumere e licenziare con facilità, corrisponde un sistema previdenziale e assistenziale molto solido in cui a sussidi di disoccupazione generosi si uniscono possibilità concrete di riqualificazione e riconversione professionale. Per il futuro, l’integrazione sempre maggiore delle politiche di governo con strumenti di mobilitazione e partecipazione, uniti alle tecniche della democrazia partecipativa potranno forse arrestare la caduta e aiutare la rinascita di questo importante modello politico e culturale.

 

Olafur Eliasson, Waterfall, 2016. Foto Anders Sune Berg. Dalla mostra alla Reggia di Versailles, fino al 30 ottobre. Courtesy of the artist, Galerie neugerriemschneider, Berlin, Tanya Bonakdar Gallery, New York.

Olafur Eliasson, Waterfall, 2016. Foto Anders Sune Berg. Dalla mostra alla Reggia di Versailles. Courtesy of the artist, Galerie neugerriemschneider, Berlin, Tanya Bonakdar Gallery, New York.

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