L’economista americano premio Nobel Joseph E. Stiglitz, autore nel 2012 di The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future (Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro) edito in Italia da Einaudi (pp. 476, 23 euro) è stato il primo a porre il problema del crescente divario di benessere tra le diverse classi sociali. In questo libro, Stiglitz ha analizzato le cause che hanno portato l’uno per cento della popolazione degli Stati uniti a possedere più del 65 per cento del reddito nazionale lordo, raggiungendo livelli mai visti dagli anni della Grande depressione. La tesi di Stiglitz è stata ripresa e ampliata nel 2014 dall’economista francese Thomas Piketty, docente alla Paris School of Economics, autore del bestseller Il capitale del XXI secolo (Bompiani, pp. 950, 22 euro, eBook 6,99 euro). Con il supporto delle ricerche statistiche di Antony Atkinson dell’Università di Oxford e di Emmanuel Saez dell’Università di Berkely, Piketty ha dimostrato che l’aumento del reddito dei detentori di capitale e la concentrazione del reddito primario (al netto delle tasse e dei trasferimenti) sono al vertice della piramide distributiva negli Stati uniti e in tutte le maggiori economie mondiali. Per Stiglitz e Piketty quindi la ricchezza si concentra nelle mani di un numero sempre più limitato di persone e in percentuale molto superiore alla crescita del reddito prodotto dal lavoro. Idea condivisa dal premio Nobel per l’Economia Paul Krugman, che recensendo il libro di Piketty su The New York Review of Books ha scritto: “Una rivoluzione che ci fa comprendere le tendenze nel lungo periodo della disuguaglianza. Prima di questa rivoluzione, la maggior parte delle analisi sulla disparità economica avevano più o meno ignorato la fascia più ricca della popolazione”.
Il capitalismo è il problema o la soluzione?
Contro questa tesi si è schierato il filosofo Harry G. Frankfurt dell’Università di Princeton. Nel suo libro On Bullshit (Stronzate. Un Saggio filosofico) edito in Italia da Rizzoli (pp. 61, 6 euro) demistifica numerosi luoghi comuni che invadono la nostra vita quotidiana e afferma: “Mi sembra che la nostra sfida più importante non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono molto diseguali tra loro, ma che ci sono troppi poveri”. Secondo il filosofo americano l’egualitarismo economico può allontanare le persone da ciò che davvero desiderano e di cui hanno bisogno, contribuendo al “disorientamento morale e alla superficialità della nostra epoca”. Gli argomenti di Frankfurt hanno trovato una indiretta conferma nello studio di due economisti americani, Phillip Magness della George Mason University e Robert Murphy dell’Institute for Energy Research, pubblicato sul Journal of Private Enterprise, che contestano i dati di Piketty e nel lavoro di Angus Deaton, cui è stato assegnato l’ultimo Nobel dell’economia per le sue osservazioni sui comportamenti individuali nel campo dei consumi e le ricerche sulla distribuzione del reddito e povertà. Per Deaton il capitalismo non è il problema del mondo in via di sviluppo, ma la soluzione a molti suoi problemi come sembra confermare il recente rapporto della Banca mondiale in cui si dichiara che per la prima volta la popolazione in condizioni di estrema povertà (meno di 1,90 dollari al giorno) è scesa sotto la soglia del 10 per cento. Ma il nuovo libro dell’economista Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley The Hidden Wealth of Nations (La ricchezza nascosta delle nazioni, University of Chicago Press, pp. 200, 20 dollari, eBook 18 dollari) con postfazione di Piketty, focalizza ancora una volta il dibattito sui problemi della disuguaglianza.
Perché i ricchi diventano sempre più ricchi?
Zucman affronta il problema della crescente disparità economica che consente all’uno per cento della popolazione di detenere la maggior parte della ricchezza mondiale focalizzandosi sull’elusione fiscale. La sua ricerca rivela che nei paradisi fiscali affluisce un costante e crescente flusso di capitali che danneggia fortemente l’economia mondiale. Lo studio di Zucman combatte l’dea largamente diffusa presso numerosi economisti dell’inutilità e della difficoltà di contrastare questo fenomeno, considerato fisiologico alla vitalità e al dinamismo del sistema economico, praticamente scomparso dal dibattito internazionale dopo la crisi finanziaria esplosa tra la fine del 2006 e il 2008 e mostra dati molto significativi sulla necessità di invertire la rotta. Per la prima volta stima che le grandi imprese internazionali nascondono al fisco un patrimonio di oltre 7.600 miliardi di dollari, pari a circa il 10 per cento delle risorse finanziarie globali delle famiglie, grazie ai paradisi fiscali di paesi come la Svizzera, il Lussemburgo, l’Irlanda, le Isole Vergini Cayman e Channel.
Lotta ai paradisi offshore
Solo forzando i segreti fiscali offshore, afferma Zucman rivolgendosi alla classe politica internazionale, sarà possibile trovare un rimedio al rapido incremento delle disuguaglianze, che oltre a ostacolare il miglioramento delle condizioni di vita e del benessere generali (le società patrimoniali e oligarchiche spengono il dinamismo, la capacità di crescere e l’innovazione) incide negativamente anche sullo sviluppo della giustizia e della democrazia. Idea ripresa anche dall’ultimo vertice del Fondo monetario internazionale a Lima, in cui si è raggiunto un accordo di massima per ostacolare la fuga di capitali verso i paradisi fiscali. Sui temi della disuguaglianza e sulle azioni utili a contrastarla è tornato recentemente Stiglitz che, dopo The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future (Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro) ha pubblicato negli Stati uniti due nuovi libri e un report: The Great Divide: Unequal Societies and What We Can Do About Them (Norton, pp. 448, 17,95 dollari, eBook 14,74 dollari, tradotto in italiano da Einaudi col titolo La grande frattura. L.a disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, pp. 463, 22 euro), Creating Learning Society: A New Approach to Growth, Development and Social Progress, scritto insieme a Bruce C. Greenwald (Columbia University Press, pp. 432, 24,95 dollari, eBook 23,99 dollari) e Rewriting the Rules of the American Economy: An Agenda for Grow and Shared Prosperity (The Roosveld Institute, pp. 114, disponibile su www.rewritetherules.org). In The Great Divide Stiglitz continua e arricchisce i concetti espressi in The Price of Inequality e suggerisce alcune azioni per contrastare gli effetti negativi della disuguaglianza che si sta diffondendo in misura crescente negli Stati uniti e in tutto il mondo a causa di politiche ingiuste e di priorità sbagliate.
Svanisce il mito dell’“American dream”
Stiglitz analizza il periodo compreso tra la presidenza di Ronald Reagan (da gennaio 1981 a gennaio 1989) e la recente Grande recessione, la più grande crisi economica dopo la Depressione degli anni Trenta del secolo scorso e ne valuta le conseguenze dal punto di vista economico e sociale. Attraverso lo studio e la critica di politiche come la deregulation, cioè la mancanza di controlli sui mercati, il taglio delle tasse e le agevolazioni fiscali, che l’autore giudica irresponsabili perché hanno favorito esclusivamente l’uno per cento più abbiente della popolazione diventato così ancora più ricco e hanno messo la parola fine al mito dell’American dream ormai irraggiungibile per la maggior parte delle persone, Stiglitz sollecita l’adozione di soluzioni concrete che possano fermare e invertire questo fenomeno. Come ha scritto James Surowiecki su The New York Review of Books: “The fundamental truth about American economic growth today is that while the work is done by many, the real rewards largely go to the few” (La verità fondamentale sull’attuale crescita dell’economia americana è che il lavoro viene fatto da molte persone, ma la vera ricompensa è destinata a pochi). A conferma della sua affermazione, Surowieki riporta alcuni numeri su cui riflettere. L’uno per cento della popolazione guadagna oltre il 20 per cento del reddito totale (quota più che raddoppiata negli ultimi 35 anni) e gli introiti delle persone che si collocano nella fascia alta, che corrisponde allo 0,1 della popolazione, hanno avuto un incremento ancora maggiore. Nello stesso periodo i salari medi e i redditi familiari sono aumentati in maniera molto limitata e il numero dei lavoratori meno scolarizzati, che cioè non hanno compiuto studi universitari, sono addirittura diminuiti. Per Stiglitz la crescente disuguaglianza che caratterizza la nostra epoca è il segnale più evidente che il capitalismo americano sta seguendo una strada sbagliata e pericolosa, cui è necessario porre al più presto rimedio e precisa: “There are so many different parts to America’s inequality: the extremes of income and wealth at the top, the hollowing out of the middle, the increase of poverty at the bottom. Each has its own causes, and needs it own remedies” (Ci sono tante diverse disuguaglianze in America: a un estremo si collocano il reddito e la ricchezza al vertice, al centro la classe media impoverita e all’altro estremo, in basso, l’aumento della povertà. Ognuna ha le sue cause e ha bisogno dei propri rimedi”).
I danni della rendita improduttiva
Ma perché in questa fase storica in cui si parla apertamente di stagnazione secolare i ricchi diventano sempre più ricchi? Non solo perché, risponde Stiglitz riferendosi a una delle tesi di Piketty in Il capitale nel XXI secolo, si rafforza il “capitalismo patrimoniale”, cioè fondato sull’accumulazione da parte di una minoranza di redditi costituiti da attività improduttive, ma soprattutto a causa del rent seeking, cioè la ricerca di rendite molto elevate grazie a posizioni monopolistiche di organizzazioni e imprese. A questo si aggiungono, da una parte gli stipendi delle élite (per esempio i top manager) talmente elevati da ricordare i latifondi ricevuti in dono dai sovrani, anche perché i compensi dei dirigenti superstar sono fissati dalle stesse categorie manageriali, mentre dall’altra (quella dei semplici lavoratori) i salari sono uguali o spesso inferiori ai compensi precedenti la Grande recessione. Per quanto riguarda il rent seeking, Stiglitz si riferisce alla finanza e alle imprese che fondano la loro fortuna sui monopoli di lunga durata come spesso accade nell’industria farmaceutica in cui i contenuti e la durata dei brevetti diventano un ostacolo alla libera concorrenza a alla dinamicità del mercato.
Le scelte per invertire la rotta
Per opporsi a questi fenomeni che danneggiano il benessere e la crescita della società ed erodono il senso di appartenenza a una comunità, il desiderio di uguaglianza e la ricerca di pari opportunità, valori da sempre legati all’identità americana, Stigltz propone numerose soluzioni che vengono svolte in modo più ampio in Creating Learning Society: A New Approach to Growth, Development and Social Progress, un lavoro accademico su come le politiche governative possono aiutare e guidare l’innovazione nell’epoca dell’economia della conoscenza e in Rewriting the Rules of the American Economy: An Agenda for Grow and Shared Prosperity, in cui elenca una dettagliata lista di riforme, che ritiene possano creare un’economia più dinamica e utile a tutti. Tra queste misure assumono particolare importanza l’aumento delle tasse sulle imprese multinazionali, sulle grandi ricchezze, sui capital gain e sulle transazioni finanziarie. Stiglitz ritiene inoltre che sia molto importante istituire una carbon tax per contenere le emissioni di Co2 e salvaguardare l’ambiente, aiutare in modo consistente le famiglie meno abbienti invece delle banche per dare ai loro figli la possibilità di salire nella scala sociale, investire nella scuola, nella salute, nella ricerca scientifica, nelle infrastrutture e, soprattutto, fare il massimo sforzo per ripristinare il pieno impiego. I modelli di riferimento di Stiglitz, che condanna le politiche di austerità dell’Unione europea, sono quelli della Scandinavia, di Singapore e del Giappone. Le scelte da compiere non sono infatti tra crescita ed equità perché una politica al passo coi tempi deve comprenderle entrambe. Solo così si potrà condividere e realizzare il sogno di una società più giusta ed efficiente.
“Solo forzando i segreti dei paradisi fiscali si troverà rimedio all’incremento delle disuguaglianze, che ostacolano crescita e innovazione”
“Negli Usa la deregulation e l’eccessivo taglio delle tasse hanno favorito esclusivamente l’uno per cento più abbiente della popolazione”
“L’uno per cento della popolazione guadagna più del 20 per cento del reddito totale (la quota è più che raddoppiata negli ultimi 35 anni)”
“Grazie al rent seeking (la ricerca di rendite elevate) molte grandi imprese fondano la loro fortuna sui monopoli di lunga durata”
“Aumentare le tasse sulle multinazionali, sulle grandi ricchezze, sui capital gain e sulle transazioni finanziarie favorisce la crescita”
“Per superare le disparità economiche è fondamentale investire nella scuola, nella salute, nella ricerca scientifica e nelle infrastrutture”
Andare oltre i modelli tradizionali
È necessario favorire un sistema educativo aperto a creatività e innovazione
Nel dibattito su come redistribuire il reddito in modo da limitare il forte gap creatosi negli ultimi decenni tra la fascia più abbiente della popolazione e quella che non ha avuto benefici dalla crescita economica, oltre agli studi di Stiglitz, Piketty e Zucman (vedi articolo sopra) si segnalano le posizioni contrapposte dell’economista britannico Antony Barnes Atkinson e del filosofo americano John Rawls. Atkinson, che fa riferimento alla teoria utilitarista di Jeremy Bentham (la maggiore felicità per il maggior numero di persone) ed è considerato il precursore degli studi sulla disuguaglianza, privilegia i temi dell’equità sociale e delle politiche pubbliche, mentre Rawls sostiene che il concetto di giustizia deve essere prioritario rispetto a quello di bene comune. Per Atkinson le disuguaglianze si combattono con la distribuzione di utilities, cioè un adeguato livello di consumi e di tempo libero, che lo stato deve garantire attraverso sussidi, benefici fiscali e servizi. Per Rawls invece la giustizia sociale richiede che i governi si servano soprattutto delle tasse per migliorare il tenore di vita della popolazione con minori disponibilità economiche, perché le politiche di welfare sono oggi eccessivamente costose e non consentono di migliorare i livelli salariali. Secondo l’economista americano Edmund Strother Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, è difficile stabilire se sia preferibile la posizione di Atkinson o quella di Ralwls, perché l’avvento della globalizzazione ha messo in crisi le economie occidentali, che non hanno saputo incrementare in maniera adeguata la produttività, messa in stallo dalle economie emergenti, con conseguente marginalizzazione di un numero molto elevato di lavoratori. Phelps suggerisce soluzioni che vadano oltre quelle proposte dai classici modelli economici, basati sull’accumulazione e l’efficienza, più aperte alla creatività e all’innovazione troppo spesso frenate non solo da lobby e monopoli ma anche dai valori tradizionali espressi da scuola e famiglie, che formano la base della società. La vera svolta deve partire proprio da qui promuovendo una riforma profonda del sistema educativo in cui vengano messe in primo piano non solo le materie tecnico scientifiche, ma anche l’economia studiata insieme alle materie umanistiche, le sole che possono offrire gli strumenti più idonei per coltivare l’immaginazione, autentico catalizzatore di crescita e sviluppo.
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