Le difficoltà di una ripresa significativa e duratura e la probabilità di una nuova recessione in molti tra i paesi industrialmente più avanzati nonostante la rivoluzione tecnologica sviluppata dall’economia digitale e dall’intelligenza artificiale, che come tutte le distruptive innovation avrebbe dovuto rivoluzionare e rivitalizzare il tessuto produttivo, ha riacceso il dibattito sulla possibilità di attraversare un periodo definito “stagnazione secolare”, caratterizzato da poca crescita, instabilità finanziaria e tassi di interesse bassi o negativi. Condizione che aumenta le possibilità di cadere in una pericolosa “trappola della liquidità”, una particolare fase economica prevista dal grande economista americano John Maynard Keines in cui la politica monetaria non riesce a esercitare nessuna influenza sulla domanda in seguito alla mancanza di fiducia da parte dei consumatori e alimenta così i timori di ulteriori aspettative negative. “Stagnazione scolare” è una teoria di Alvin Hansen, sostenitore delle tesi di Keynes, che risale agli anni Trenta del Novecento, per contrastare la grande depressione del 1929 ripresa da Larry Summers, nipote dei premi Nobel Paul Samuelson e Kenneth Arrow, ex segretario del Tesoro degli Stati uniti durante la presidenza Clinton, direttore del National Economic Council con Obama e rettore dell’Università di Harvard.
“Gioco” a somma zero
Per Summers la “stagnazione secolare” è “a prolonged period in which satisfactory growth can only be achieved by unsustainable financial conditions – may be the defining macro-economic challenge of our times” (un periodo prolungato in cui una crescita soddisfacente può essere raggiunta solo attraverso condizioni finanziarie insostenibili e rappresenta la sfida macroeconomica più significativa dei nostri tempi). Causa la “stagnazione secolare” le economie industriali soffrono di forti squilibri legati all’aumento della tendenza al risparmio rispetto alla propensione agli investimenti. Una situazione che porta inevitabilmente a una crescita contenuta o bloccata e a un’inflazione molto bassa, la quale crea un circolo vizioso definito da una minore capacità di risparmiare e a tassi di interesse vicini allo zero o negativi dove vengono favorite le politiche monetarie espansive e competitive e le guerre valutarie. Secondo l’analisi di Summers questi movimenti di denaro non portano risultati positivi perché le oscillazioni delle valute sono un “gioco” a somma zero che si limita a spostare la domanda da un’area di influenza a un’altra senza aumentare il livello globale degli investimenti.
Mutazione storica
Per uscire dallo stato di crisi è allora indispensabile definire un coordinamento internazionale in grado di evitare un ricorso eccessivo e controproducente alle politiche monetarie, con il pericolo di creare delle bolle valutarie o favorire un’eccessiva propensione al rischio, e di sostenere invece il ricorso a politiche fiscali espansive. La “stagnazione secolare” definisce una difficile congiuntura caratterizzata da una bassa crescita e da una instabilità finanziaria che danneggia in modo prevalente la classe media con conseguenze politiche ed economiche che possono diventare esplosive. Oltre a Larry Summers, altri economisti americani tra cui Robert Gordon e James Galbraith hanno pubblicato articoli e studi sulle possibilità di “stagnazione secolare”. A loro parere il periodo di crescita economica che abbiamo conosciuto dopo la rivoluzione industriale è un’eccezione, una parentesi difficilmente ripetibile. Secondo Barry Eichengreen, docente di economia e scienze politiche all’Università di Berkeley, quattro fattori principali condannano le nostre economie a una anemia prolungata. In primo luogo lo sviluppo dei paesi emergenti si accompagna a una crescita del risparmio superiore a quella dei consumi. A questo si aggiungono una scarsa propensione agli investimenti che limita in modo significativo le possibilità di sviluppo e un generale rallentamento dell’incremento della popolazione mondiale. La quarta ipotesi, sostenuta anche dall’economista americano Robert Gordon, sarebbe legata all’impatto sempre più debole dell’innovazione sulla crescita. La rivoluzione digitale avrebbe infatti una minore influenza sui fattori di produzione rispetto a quella esercitata a suo tempo della macchina a vapore o dell’elettricità. Il crack finanziario del 1987 (il lunedì nero di Wall Street), la crisi asiatica del 1997, la bolla delle dot-com nel 2000, il crac dei mutui subprime nel 2006, la grande recessione del 2008, da oltre trent’anni il mondo più avanzato economicamente è al centro di una serie di cadute senza precedenti. Per l’economista francese Robert Cohen, docente all’École normale supérieure e vicepresidente dell’École d’économie di Parigi, questo profondo malessere delle economie occidentali non è il risultato di una crisi permanente e definitiva del capitalismo, ma di una profonda mutazione storica di lunga durata. Un cambiamento radicale che pone alcune domande sugli strumenti utilizzati e su quali siano le azioni più efficaci per uscire da questa congiuntura. È ancora utile servirsi del prodotto interno lordo, un indice nato nel 1934 per misurare gli effetti della grande depressione, come segnale dello stato di salute dell’economia? I nostri modelli sociali sono ancora validi? Bisogna diminuire gli investimenti pubblici a favore di quelli privati oppure è necessario aumentarli o almeno mantenerli ai livelli attuali?
“Capitalismo riformatore”
Nel suo nuovo libro libro People, Power, and Profits: Progressive Capitalism for an Age of Discontent (W. W. Norton & Company, pp. 336, 27,95 dollari, ebook 19,08 dollari) il premio Nobel Joseph E. Stiglitz suggerisce alcune interessanti risposte a questi interrogativi. Stigltz, docente alla Columbia University e capo economista del Roosvelt Institute, già presidente dei consiglieri economici nell’amministrazione Clinton e capo economista della World Bank, analizza in modo particolare la situazione degli Stati uniti dove un numero limitato di aziende, soprattutto quelle che operano nel settore tecnologico tra cui spiccano le Big Four Google, Amazon, Facebook e Apple, domina interi settori dell’economia e contribuisce in modo determinante a rallentare la crescita e a favorire l’aumento delle disuguaglianze. Queste società, nonostante abbiano accumulato grandi ricchezze e siano in possesso di enormi quantità di dati personali (i Big Data vengono definiti il “nuovo petrolio” e sono considerati una grande fonte di ricchezza), si sono dimostrate poco generose nei confronti dei lavoratori e non hanno creato sviluppo nelle società in cui operano sia a livello nazionale sia su scala globale. A questo modello Stiglitz ne contrappone un altro, basato su un nuovo tipo di capitalismo riformatore e progressista in cui l’apprendimento, i progressi della scienza e della tecnologia diventano i fattori determinanti del cambiamento e contribuiscono a elevare il livello del benessere, a creare quella prosperità diffusa e condivisa tipica della classe media che oggi si trova in una crisi profonda e apparentemente irreversibile.
Mercati troppo liberi
Per Stiglitz, che si è sempre opposto alle teorie liberiste seguite negli Stati uniti da Reagan e Trump, il “Progressive Capitalism” è l’alternativa che consente di mettere l’economia di mercato al servizio della società, superare le disuguaglianze, dare a tutti l’opportunità di una formazione adeguata, affrontare la complessità e le difficoltà del nuovo mondo del lavoro. Una diversa forma di capitalismo orientato alla crescita e al benessere della società è per l’economista americano la sola possibile via di uscita per poter riemergere dall’attuale situazione stagnante e recuperare standard di benessere adeguati dopo le conquiste iniziate con la nascita dello stato di diritto e della democrazia e in seguito allo sviluppo scientifico e tecnologico, che hanno consentito a un numero crescente di persone di aumentare la produttività e le aspettative di vita. Stiglitz precisa che si è arrivati a questa difficile situazione perché si è smarrita l’idea che le vere fonti di ricchezza di ogni società sono la creatività e la capacità di innovare e non lo sfruttamento delle persone o la ricerca di rendite di posizione. Per troppo tempo si è preferito lasciare un’eccessiva libertà ai mercati e diminuire le protezioni sociali ma, come suggeriscono l’economia comportamentale e la teoria dei giochi, i mercati non sono sempre efficienti, equi, razionali e stabili. Di conseguenza, si è consolidata una situazione in cui domina un’economia basata sullo sfruttamento sia nel settore finanziario sia in quello tecnologico. Se da una parte le banche hanno fatto un uso spesso spregiudicato di strumenti rischiosi, dall’altra le compagnie hi-tech si servono dei dati personali e violano la nostra privacy anche a causa della debolezza e della scarsa efficacia delle misure antitrust, che hanno consentito ai mercati di essere sempre più concentrati e meno competitivi. Per poter vincere le sfide con i paesi con basse retribuzioni si sono inoltre diminuiti i compensi e le garanzie dei prestatori d’opera. Secondo Stiglitz bisogna quindi ridare allo stato un ruolo vitale di regolamentazione dei mercati in modo da garantire un’autentica concorrenza e favorire una migliore integrazione tra le esigenze delle aziende, i bisogni e le competenze dei lavoratori.
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“Poca crescita, instabilità finanziaria e piccoli tassi di interesse aumentano le possibilità di cadere in una pericolosa ‘trappola della liquidità’”
“Bassa inflazione e sviluppo limitato creano un circolo vizioso in cui vengono favorite le politiche monetarie competitive e le guerre valutarie”
“La ‘stagnazione secolare’ è una difficile congiuntura che danneggia in modo prevalente la classe media con conseguenze difficili da controllare”
“Per l’economista francese Robert Cohen il malessere delle economie occidentali è il risultato di una profonda mutazione storica di lunga durata”
“All’attuale modello di capitalismo Stiglitz ne contrappone un altro in cui i progressi della scienza contribuiscono a elevare il livello di benessere”
“Il ‘Progressive Capitalism’ può essere l’alternativa che consente di mettere l’economia al servizio della società e superare le disuguaglianze”
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PIÙ POTERE AI LAVORATORI O ALLA CONCORRENZA?
Proposte a confronto per uscire dalla stagnazione
Come ricorda l’economista francese Thomas Piketty nel suo bestseller Il capitale nel XXI secolo edito in Italia da Laterza, soprattutto negli ultimi anni la ricchezza si è sempre più accentrata in poche persone a danno della maggior parte dei lavoratori, che hanno subito una riduzione delle retribuzioni e del loro potere di acquisto. Se negli Stati uniti quattro aziende hi-tech (Google, Amazon, Facebook, e Apple) controllano più dei due terzi del mercato e un numero limitato di imprese tradizionali come le compagnie aeree o le aziende televisive si trova in una condizione di monopolio con servizi spesso mediocri a prezzi elevati, in Europa la tendenza è simile anche se meno estrema. Nonostante i bassi tassi di interesse di cui hanno fruito per un lungo periodo di tempo, queste società hanno approfittato della loro posizione di privilegio per reinvestire solo una piccola quota dei loro profitti in nuovi progetti, ricerca e sviluppo, in programmi di aggiornamento e riqualificazione o per migliorare le condizioni dei propri dipendenti. La mancanza di competizione ha inoltre portato una debole crescita della produttività, consentito di ridurre il numero dei lavoratori e di sostituirli solo in parte con nuove assunzioni. Non deve quindi destare sorpresa la crescente disaffezione di strati crescenti della popolazione, in particolare delle fasce più giovani, verso le regole del mercato e del sistema capitalista. Per riequilibrare questa difficile situazione, si chiede da parte dei partiti di ispirazione socialista una rivalutazione del ruolo dei sindacati e una maggiore partecipazione dei lavoratori alle decisioni e al capitale dell’azienda, mentre quelli di ispirazione liberaldemocratica sollecitano una maggiore concorrenza. Diversamente dall’economista americano Joseph E. Stiglitz (vedi articolo qui sopra) che auspica un intervento dello stato nella regolamentazione dei mercati, reclamano maggiori innovazioni a favore degli utenti, un aggiornamento delle leggi antitrust rimodulate sui nuovi modelli industriali e l’azione dei governi solo per abbattere le barriere di ingresso.