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Dramma in tre atti. Andiamo (inconsapevoli) verso la catastrofe?

L’accordo di Parigi sul clima approvato alla fine del 2015 e sottoscritto da 195 paesi, tra cui tutti i maggiori rappresentanti dell’economia mondiale, ha costituito un impegno importante, anche se non sufficientemente ambizioso, in grado di contenere l’aumento medio della temperatura alla fine del secolo a un grado e mezzo e comunque al disotto di due gradi, limite oltre il quale si avvia un processo di distruzione dell’ecosistema probabilmente irreversibile. La decisione di Washington di non aderire al patto per la riduzione delle emissioni di Co2, nonostante l’assicurazione degli altri stati aderenti di mantenere la promessa, determina un arretramento difficilmente sanabile in un momento storico molto critico per l’ambiente, segnato da una serie di eventi che stanno compromettendo in modo profondo l’equilibrio del pianeta, il benessere delle persone e la sopravvivenza di molte specie animali e vegetali. Per l’autorevole rivista scientifica Nature Communications (https://www.nature.com/articles/ncomms14845) le attuali attività umane possono infatti provocare i cambiamenti climatici più veloci da circa cinquanta milioni di anni e gli Stati uniti sono una delle nazioni maggiormente responsabili del degrado dell’habitat a causa dell’altissimo livello di produzione di Co2, l’uso massiccio di fertilizzanti chimici e l’elevato grado di inquinamento delle acque.

Segnali di allarme
I sintomi più evidenti dell’impatto del cambiamento climatico sono costituiti dall’inarrestabile decrescita delle superfici dei ghiacci artici, ma inquietanti avvertimenti giungono da alcuni anni anche dall’Antartide dove, come avevano previsto i ricercatori inglesi del progetto Midas (Managing Impacts of Deep Sea Source Exploitation) si è staccato un iceberg di grandissime dimensioni con una superficie simile a quella della Liguria, dalla situazione ormai insostenibile degli oceani, i quali coprono la maggior parte della superfice della Terra, invasi in modo incessante da rifiuti costituiti prevalentemente da materie plastiche che permangono per lungo tempo nell’ambiente e lo sbiancamento di numerose fondamentali barriere coralline, che per la loro funzione di riequilibrio dell’habitat svolgono un ruolo simile a quello delle foreste tropicali. Secondo il nuovo rapporto SWIPA (Snow, Water, Ice e Permafrost in the Arctic) pubblicato quest’anno e realizzato con gli auspici dell’Arctic Council, il comitato scientifico che riunisce gli otto paesi che formano il circolo polare artico (Norvegia, Svezia, Finlandia, Federazione russa, Alaska, Canada, Groenlandia e Islanda) e altre nazioni come Cina e India, negli ultimi trent’anni l’area dei ghiacci marini è diminuita di oltre il 50 per cento e il suo volume si è ridotto di tre quarti. Lo spessore dei ghiacci al centro dell’area artica ha inoltre subito un calo del 65 per cento tra il 1975 e il 2012.

Mutamento dell’ecosistema
Una tendenza pericolosa che, se non verrà limitato in modo consistente l’effetto serra, porterà alla sparizione dei ghiacci entro il 2040, cioè tra poco più di vent’anni, con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche per l’intero pianeta (prima di questa previsione si riteneva che l’evento si sarebbe manifestato dopo il 2070). Anche se l’Artico rappresenta solo un quarto delle superfici ghiacciate del mondo, l’acqua prodotta dal loro scioglimento incide per il 35 per cento sull’aumento del livello degli oceani nel globo, provocando le migrazioni delle comunità e il mutamento degli ecosistemi che si trovano nei pressi delle coste o nelle isole meno elevate sul livello del mare. Il cambiamento in atto sta inoltre causando modifiche significative alla circolazione oceanica e alla quantità di anidride carbonica che l’oceano assorbe dall’atmosfera con conseguente acidificazione delle acque, danni alla fauna marina e probabili conseguenze irreversibili sul clima. Senza dimenticare che, mentre è controversa la possibilità di aprire nuove e più rapide rotte commerciali tra Europa, Asia e America del nord, il cambiamento climatico potrà facilitare l’accesso alle fonti di petrolio, gas e minerali tra cui l terre rare, fondamentali per lo sviluppo tecnologico, che si trovano nell’Artico favorendo l’incremento dell’attività estrattiva, la quale produce forti emissioni di Co2 e genera un circolo vizioso di surriscaldamento.

Fauna ittica in pericolo
La grande estensione delle acque oceaniche è stata finora usata come un alibi per non porre limiti rigorosi alla pesca e all’inquinamento, che nel corso di decenni hanno provocato un aumento esponenziale dello stress dell’habitat marino con effetti drammatici di cui solo ora si inizia a comprendere e a valutare la pericolosità. Nell’accordo di Parigi sul clima c’è, per esempio, solo un riferimento agli oceani e i problemi non vengono affrontati in modo adeguato. Da una parte ci troviamo di fronte alla crescita costante del consumo di pesce, dall’altra all’espansione incontrollata dei rifiuti prevalentemente di plastica gettati in mare che, entro il 2050, potrebbe raggiungere una dimensione superiore a quello della fauna ittica. Rifiuti i cui residui vengono ingeriti dai pesci e, di conseguenza, entrano nel nostro ciclo alimentare. Sono diversi i motivi che non hanno consentito un’azione rigorosa di prevenzione e tutela. Una parte consistente dei danni si sviluppa nelle acque profonde e risulta quindi difficilmente visibile. È inoltre molto complesso armonizzare la governance delle acque internazionali, soggette a leggi e accordi di diversi paesi la cui corretta applicazione sfugge molto spesso ai controlli. Senza diritti ben definiti e incentivi omogenei per rimuovere la plastica, tendono a prevalere gli interessi individuali e nazionali su quelli collettivi e sul rispetto delle quote di pesca assegnate. Alcuni di questi problemi possono però essere risolti grazie all’utilizzo diffuso sia di tecnologie che si basano sull’uso dei droni e delle immagini satellitari per monitorare l’attività delle imbarcazioni e contrastare la pesca illegale, sia attraverso la radiometria, che consente di conoscere il comportamento del fitoplancton e di conseguenza lo stato di salute del mare e grazie alla mappatura dei fondali marini per rilevare la presenza di oggetti con la tecnologia sonar, basata sulla propagazione del suono con infrasuoni e ultrasuoni. L’uso trasparente di database condivisi dai diversi governi potrebbe inoltre consentire il controllo dello smaltimento dei rifiuti e delle industrie che si occupano delle attività estrattive in alto mare. A queste misure si devono aggiungere le verifiche del pescato e lo scambio di informazioni nei porti dove approdano le navi, capaci di tutelare il rispetto dei codici e degli accordi tra gli stati.

Sbiancamento e morte dei coralli
L’emissione di gas serra, composti prevalentemente da vapore acqueo, anidride carbonica, metano, alocarburi e ozono, provoca un surriscaldamento dell’atmosfera e un’acidificazione degli oceani che, oltre a incidere negativamente sulla salute del pianeta, sta mutando radicalmente l’ambiente marino e danneggia fortemente le barriere coralline. Secondo un recente studio dell’UICN (Unione internazionale per la conservazione della natura), circa il 38 per cento dei coralli presenti nell’Oceano Pacifico, nell’Oceano Indiano e nei Caraibi si stanno sbiancando e, se non muteranno radicalmente le condizioni ambientali, si prevede che in un periodo compreso tra i trenta e i cinquant’anni, il 70 per cento delle barriere coralline, paragonabili per la loro funzione di riequilibrio dell’habitat alle foreste tropicali, rischiano l’estinzione con gravi ripercussioni sull’intero ecosistema e in particolare sulle popolazioni la cui economia, basata su pesca, coltivazione delle perle e turismo, dipende direttamente da questa fondamentale risorsa naturale. Previsioni confermate da uno studio pubblicato nel marzo scorso da Nature, la più prestigiosa rivista scientifica al mondo insieme a Science. Per il secondo anno consecutivo il forte aumento della temperatura del mare (fino a quattro gradi) ha causato uno sbiancamento senza precedenti della Grande barriera corallina, la più vasta del mondo, che si estende per circa 2300 chilometri lungo la costa nord orientale dell’Australia, formata da seicento diversi tipi di corallo e 1625 specie di pesci, e provocato la morte del 20 per cento (al nord dei due terzi) dei coralli.

Verso il punto di non ritorno?
Come suggerisce la ricerca dell’archeologo americano David Wright della Seoul National University Human sas agents in the termination of the African Humid Period (http://www.academia.edu/31079511/Humans_as_agents_in_the_termination_of_the_African_Humid_Period._Frontiers_in_Earth_Science_5_4_doi_10.3389_feart.2017.00004_2017_), pubblicata quest’anno sulla rivista Frontiers in Earth Science, anche in passato la razza umana è stata responsabile mutazioni epocali dell’ambiente. Wright ricorda che il deserto del Sahara ospitava fino a circa diecimila anni fa una ricca vegetazione, numerosi laghi e una fauna ricca e diversificata. Gli abitanti delle savane e delle foreste di questa grande area vivevano di caccia e dei frutti della terra, ma con il passaggio all’allevamento del bestiame e alla pastorizia è iniziato il progressivo disboscamento, il quale ha aumentato la quantità di luce riflessa dalla superficie terrestre e provocato profondi cambiamenti nell’atmosfera, che uniti all’oscillazione dell’orbita terrestre, hanno ridotto le piogge monsoniche fino ad arrivare alla desertificazione. L’antropocene, l’epoca iniziata quando le attività umane hanno avuto un impatto significativo sulla terra ha quindi preso avvio nella preistoria, mentre il periodo della prima rivoluzione industriale, considerato generalmente l’inizio di questa fase storica, segna solo il momento di accelerazione dei cambiamenti catastrofici. L’aumento delle emissioni di gas serra, che hanno contribuito all’innalzamento negli ultimi cento anni del riscaldamento globale di un grado di temperatura, con un veloce incremento tra la fine del secolo scorso e l’inizio del Duemila, hanno causato forti cambiamenti ambientali, siccità ed estinzione di specie vegetali e animali provocando l’incremento dei conflitti internazionali e delle migrazioni per sfuggire a condizioni non sopportabili di violenza e miseria. Ma il futuro si annuncia ancora più difficile e in un breve periodo di tempo potremmo raggiungere il punto di non ritorno.

 


 

“Come ha affermato Nature Communications le attuali attività umane stanno provocando i cambiamenti climatici più veloci da circa 50 milioni di anni”

“Negli ultimi 30 anni l’area dei ghiacci artici si è assottigliata, è diminuita di oltre il 50 per cento e il suo volume si è ridotto di tre quarti”

“Se l’effetto serra non verrà limitato i ghiacci artici scompariranno tra poco più di vent’anni con conseguenze disastrose per il pianeta”

“La massa dei rifiuti in plastica gettati in mare potrebbe raggiungere entro il 2050 una dimensione superiore a quella della fauna ittica”

“Per il secondo anno consecutivo il forte aumento della temperatura del mare ha causato lo sbiancamento della Grande barriera corallina australiana”

“Secondo uno studio UICN si prevede che in un periodo compreso tra i 30 e i 50 anni, rischia l’estinzione il 70 per cento delle barriere coralline”

 

David Hockney, A Bigger Splash, 1967, acrilico su tela, Collection Tate © David Hockney. Dalla mostra David Hockney, Tate Britain, Londra, Centre Georges Pompidou, Parigi, The Metropolitan Museum of Art, New York.

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