Il vantaggio competitivo del capitale

“A revolution in our understanding of long-term trends in inequality. Before this revolution, most discussions of economic disparity more or less ignored the very rich” (Una rivoluzione che ci fa comprendere le tendenze nel lungo periodo della disuguaglianza. Prima di questa rivoluzione, la maggior parte delle analisi sulla disparità economica avevano più o meno ignorato la fascia più ricca della popolazione) ha affermato il premio Nobel per l’economia Paul Krugman su The New York Review of Books, analizzando Il capitale del XX secolo, il libro cult dell’economista francese Thomas Piketty, docente alla Paris School of Economics, edito in Italia da Laterza (pp. 950, 22 euro; eBook 8,99 euro). Un endorsement entusiastico, che ha posto all’attenzione internazionale un lavoro importante e innovativo, che ha avuto un successo internazionale con pochi precedenti nel campo delle analisi economiche, ma che ha messo in ombra altri contributi recenti non meno significativi tra cui quello dell’americano premio Nobel Joseph E. Stiglitz, autore nel 2012 di The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future (Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro) edito in Italia da Einaudi (pp. 476, 23 euro). Stiglitz ha evidenziato come il livello di disuguaglianza del reddito negli Stati uniti raggiunge oggi livelli mai visti dagli anni la Grande depressione del 1929 e, per la prima volta, ha posto il problema dell’“uno per cento”, ripreso da Piketty nel suo ultimo lavoro. Stiglitz ricorda infatti che negli anni del boom precedenti la crisi finanziaria del 2008, l’uno per cento dei cittadini si è impossessato di più del 65 per cento del reddito nazionale lordo, mentre la maggior parte delle persone vedeva erodere il proprio tenore di vita. Nel 2010, inoltre, quando la nazione lottava per superare una profonda recessione, l’uno per cento della popolazione si impadroniva del 93 per cento del reddito aggiuntivo creato dalla ripresa economica.

Il tramonto della “golden age”
Il libro di Piketty, cui hanno contribuito le analisi tecniche e le ricerche statistiche di Antony Atkinson dell’Università di Oxford e di Emmanuel Saez dell’Università di Berkeley, si basa una raccolta di dati molto ampia e significativa su 20 paesi, che risale fino ai primi del 900 per quanto riguarda Stati uniti e Gran Bretagna e al XVIII secolo per la Francia. I trend a lungo termine che sono stati individuati dimostrano che l’aumento del reddito dei detentori di capitale e la concentrazione del reddito primario (quello al netto delle tasse e dei trasferimenti) è al vertice della piramide distributiva negli Stati uniti e in tutte le maggiori economie mondiali. Piketty fa riferimento a Karl Marx e alla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito con rendimenti decrescenti su ogni unità aggiuntiva di capitale. Ma per Piketty il rendimento del capitale è diminuito, quando è diminuito, in proporzione molto inferiore al tasso con cui è cresciuta l’economia reale. Inoltre, anche se il capitale può essere, almeno in parte, sostituito dal lavoro, soprattutto dopo l’avvento degli hardware e dei software intelligenti, che negli Usa svolgono già il 47 per cento delle attività lavorative, questo rimane un traguardo impossibile da raggiungere. I ricchi diventeranno quindi sempre più ricchi e le disuguaglianze aumenteranno. L’accesso ai gradi più elevati di istruzione sarà più costoso e tenderà a escludere le fasce meno abbienti della popolazione, ma anche gran parte della classe media. Piketty prevede che il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 nel 2010 a 6,5 nel 2100 e sostiene che la redistribuzione dei redditi avvenuta nel secondo 900 in tutti i paesi occidentali, dalla ricostruzione postbellica agli anni 70 (la cosiddetta golden age) grazie al rapido processo di industrializzazione e a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, ha favorito la crescita della classe media e il consolidamento della democrazia, è stata un’eccezione e un’illusione. A differenza di altri economisti per cui la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, come una marea che solleva tutte le imbarcazioni, le scialuppe insieme agli yacht (secondo questa teoria se i ricchi diventano più ricchi  prosperano anche le fasce sociali più deboli), per Piketty non è stato il progresso a ridurre le disuguaglianze ma la seconda guerra mondiale, perché solo eventi traumatici possono bilanciare le tensioni profonde su cui si fonda la nostra società. La tendenza attuale è un ritorno a un capitalismo di tipo ottocentesco simile a quello descritto nei romanzi di Jane Austen e Balzac (oltre all’analisi economica Piketty si serve di numerosi riferimenti letterari e filosofici) in cui qualunque carriera non potrà mai avere lo stesso successo di un matrimonio d’interesse.

Una situazione irreversibile?
I super ricchi si sposano sempre più frequentemente tra loro, anche perché sono più numerose le donne che possono contare su alte retribuzioni. Viene quindi favorita una concentrazione di reddito e di capitale molto superiore e rapida rispetto a venti o trent’anni fa, quando uomini ricchi sposavano più spesso donne con un patrimonio inferiore. Si rafforza così quello che l’economista francese definisce “capitalismo patrimoniale”, cioè fondato sull’accumulazione, da parte di una minoranza, di redditi costituiti da attività improduttive, provenienti in misura maggiore da beni ereditati che accumulati con il risparmio prodotto dal reddito da lavoro. A questo si aggiungono gli stipendi dei top manager, che sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in passato in dono dai sovrani, premessa di una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non potrà mai avere. Anche perché nel mercato internazionale del lavoro, i compensi dei dirigenti superstar sono fissati dalle stesse categorie manageriali. Ma è possibile porre rimedio o ribaltare una situazione almeno apparentemente irreversibile? A questa domanda Piketty risponde con la proposta di una tassa globale sulle grandi ricchezze dell’uno per cento su patrimoni tra uno e cinque milioni di euro e del due per cento oltre i cinque milioni, accompagnata da una politica capace di scoprire chi nasconde la propria ricchezza attraverso a una lotta senza quartiere ai paradisi fiscali e norme severissime contro l’evasione. Basteranno queste misure, ammesso che possano essere attuate a livello planetario o anche solo nel mondo occidentale, a colmare il gap profondo della disuguaglianza, oppure si riveleranno solo un palliativo insufficiente a contrastare in modo efficace il vantaggio competitivo del capitale?

 

“Per Marx il capitale si accumula con rendimenti decrescenti ma, avverte Piketty, il rendimento della ricchezza è diminuito molto meno dell’economia reale”

“La redistribuzione dei redditi avvenuta in tutti i paesi occidentali, dalla ricostruzione postbellica agli anni 70, è stata un’eccezione e un’illusione”

“Si rafforza il “capitalismo patrimoniale”, cioè fondato sull’accumulazione da parte di una minoranza di redditi costituiti da attività improduttive”

“Per contrastare l’eccessiva formazione di ricchezza, Piketty propone una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze e una lotta senza quartiere all’evasione”

 


Ma il capitalismo può essere utile alla società?
Il modello svedese come antidoto al neoliberismo

Nel suo ultimo libro Quanto capitalismo può sopportare la società (Laterza, pp. 246, 19 euro), l’economista e sociologo inglese Colin Crouch, professore emerito all’Università di Warwick, propone la socialdemocrazia “assertiva”, cioè non solo difensiva ma anche dinamica, come antidoto al neoliberismo e agli attuali regimi “postdemocratici” occidentali, in cui nonostante siano garantite le libertà fondamentali e i diritti civili, il potere effettivo viene gestito da oligarchie le quali, sotto la pressione di imprese globali che non tollerano limiti alla loro azione, influenzano in modo decisivo i lavori dei parlamenti, provocando un forte aumento della disuguaglianza, la riduzione del welfare e dei diritti dei lavoratori, mentre grandi quantità di denaro pubblico vengono utilizzate per il salvataggio del sistema bancario. Per Crouch, l’unica via percorribile è quella di un’intelligente politica redistributiva, erede della socialdemocrazia, in grado di limitare gli eccessi del neoliberismo attraverso l’intervento dello stato per regolare la mobilità dei capitali e la concorrenza, unita a una legislazione che tutela il lavoro e le fasce più deboli della popolazione. Un “socialismo assertivo”, che deve saper conciliare l’economia di mercato con gli interessi di chi è alla base della piramide sociale. Una nuova idea politica, che rivendica le proprie radici nei partiti operai novecenteschi, ma al tempo stesso è aperta a modificare le regole del welfare state, senza arroccarsi su posizioni difensive inevitabilmente destinate alla sconfitta. Il modello di riferimento è la Svezia, che ha saputo armonizzare l’efficienza economica con la giustizia sociale, soprattutto a vantaggio di una classe media molto diffusa. Un’operazione ambiziosa ma di non facile soluzione in paesi che non possono vantare le tradizioni della Svezia in tema di interclassismo, diritti ed equità.

economia-3
László Moholy-Nagy, Die Neue Linie (Il nuovo stile). Dalla mostra Berlin Metropolis: 1918-1933 alla Neue Galerie di New York, catalogo edito da Prestel Pub. Courtesy The Museum of Modern Art, New York.

Stampa

Lascia un commento