“Un lavoro epico, questa è la vera, grande sfida del decennio”, ha detto Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea con delega all’Ambiente. “Dobbiamo rendere l’Europa il primo continente neutrale dal punto di vista climatico”, ha aggiunto la presidente Ursula von der Leyen nel corso della presentazione del nuovo piano Fit for 55 (Pronti per il 55) contro il cambiamento del clima varato a Bruxelles il 14 luglio 2021 che, secondo molti esponenti della Commissione, sarà il più ambizioso mai realizzato finora nel mondo. Il programma si basa sul rilancio dell’Emissions Trading System (Ets, Sistema di scambio delle emissioni) che dal 2004 a oggi ha creato un vero e proprio mercato in cui le centrali energetiche e le imprese possono scambiarsi quote di Ets. Chi inquina maggiormente può acquistare dei certificati da chi produce meno Co2 entro un totale prestabilito che diminuisce di anno in anno. Con il nuovo piano Ets l’Unione europea si prefigge lo scopo di eliminare quasi totalmente le emissioni anche nei settori dei trasporti e del riscaldamento domestico. Per raggiungere questo traguardo si arriverà allo stop delle vendite di auto a benzina e diesel dal 2035 e a favorire un forte aumento della produzione di energia solare ed eolica in modo da riuscire ad abbattere la Co2 del 55 per cento entro il 2030 e arrivare alla neutralità climatica nel 2050.
Nuove regole e incentivi
L’altro punto qualificante di Fit for 55 è il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), un sistema in cui le aziende internazionali dei settori più inquinanti (acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti) che vogliono esportare i loro prodotti nell’Ue saranno obbligate a pagare per le emissioni causate. Il Cbam è quindi un dazio imposto per proteggere le aziende europee, che dovranno sostenere un forte aumento dei costi a causa della concorrenza da parte delle imprese attive in nazioni con minori restrizioni ambientali. Il piano prevede inoltre una tassa sui carburanti particolarmente inquinanti degli aerei e delle navi e nuove regole e incentivi per favorire l’elettrificazione del sistema dei trasporti. Sono poi proposti aiuti ai paesi membri che faranno maggiore affidamento su fonti energetiche non rinnovabili e un Fondo sociale per il clima, che mira a sostenere i cittadini più esposti all’aumento del prezzo dell’energia e più svantaggiati da queste misure almeno nel breve e medio periodo. Il Fondo potrà contare su uno stanziamento di settantadue miliardi di euro nel corso di sette anni con un plafond iniziale di otto miliardi, ritenuto però da molti economisti insufficiente per poter dare un contributo concreto. I provvedimenti di Fit for 55 varati dalla Commissione, l’organo esecutivo dell’Ue che promuove il processo legislativo, per entrare in vigore dovranno essere approvati anche dal Consiglio e dal Parlamento europeo.
Più energia pulita
Per Ursula von der Leyen rispettare i parametri di Fit for 55 è l’unica possibilità di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi stabiliti dagli accordi di Parigi del 2015, ma data la complessità della materia e gli interessi divergenti tra i diversi paesi si annuncia un iter legislativo lungo almeno due anni che potrebbe subire numerose modifiche e attraversare complicate trattative. Inoltre, se ai movimenti ambientalisti queste scelte sembrano utili ma insufficienti, non vengono per esempio eliminati ma solo ridotti i permessi gratuiti nell’ambito del sistema Ets e non si tolgono i sussidi all’idrogeno prodotto con combustili fossili, per altre formazioni politiche le misure adottate appaiono troppo restrittive e penalizzanti sulle economie di molte nazioni europee soprattutto in seguito alla grave crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina. Per quanto riguarda l’Italia potrebbero avere molti problemi settori fondamentali come l’automotive, la componentistica, l’agricoltura, la ceramica, la carta, l’acciaio e l’alluminio con ricadute negative sulla sostenibilità a livello sociale ed economico. Da parte di alcuni movimenti, partiti politici, associazioni imprenditoriali e sindacali si chiede quindi un’applicazione più graduale di queste misure e l’istituzione di un Fondo per la transizione industriale destinato alle filiere produttive che hanno maggiori difficoltà ad abbattere le emissioni di Co2. Ma come reagiranno a questa sfida verde europea la Cina, la maggiore produttrice di catene del valore nel mondo, gli Stati uniti e i paesi produttori di combustibili fossili? Se in Europa i forti investimenti che possono contare su tassi di interesse vicini allo zero previsti dal Recovery Found, lo strumento per la ripresa e resilienza del piano Next Genetation EU per la transizione ecologica e il Green new deal, hanno favorito la crescita delle azioni emesse da aziende che operano nel campo dell’energia pulita e delle infrastrutture verdi, negli Usa il Presidente Biden è riuscito a far approvare dal Congresso una legge che stanzia 750 miliardi di dollari per l’assistenza sanitaria e il clima, cui sono destinati 370 miliardi per ridurre del quaranta per cento le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030. Un budget rilevante ma lontano dall’obiettivo di tremila e cinquecento miliardi di dollari a sostegno di programmi sociali e ambientali, che potrebbe essere ridimensionato nell’ammontare e nei tempi di attuazione in seguito alle prossime elezioni di novembre di metà mandato.
Passaggio rischioso
Il sistema energetico basato su fonti rinnovabili si annuncia migliore di quello legato alle energie fossili sia per la salute e l’ambiente sia dal punto di vista politico ed economico perché meno soggetto alla volatilità dei prezzi di petrolio, gas e carbone e non più dipendente dai paesi produttori. Attualmente i combustibili fossili rappresentano l’ottantacinque per cento dell’energia utilizzata nel pianeta e producono i due terzi delle emissioni di gas serra. L’inquinamento causato dalla loro combustione provoca ogni anno, soprattutto nelle megalopoli dei paesi emergenti, la morte di alcuni milioni di persone. Petrostati come l’Arabia Saudita e il Venezuela anche se non hanno saputo sviluppare e riconvertire le loro economie, possono però contare sul sostegno di alcune delle maggiori potenze mondiali, spinte dalla necessità di avere forniture sicure o per strategia geopolitica. Il passaggio tra l’era del petrolio il nuovo mondo sotto l’insegna green si annuncia quindi non privo di rischi. Se disordinato potrebbe aumentare l’instabilità sociale ed economica e dare alla Cina un maggiore controllo della catena di approvvigionamento verde (terre rare da cui dipendono l’industria militare, aerospaziale ed elettronica, pannelli fotovoltaici ecc.).
Maggiore concorrenza
A livello globale, l’energia rinnovabile (elettrica, solare ed eolica) dovrebbe aumentare dall’attuale cinque al venticinque per cento nel 2035 e arrivare a quasi il cinquanta per cento nel 2050, di conseguenza si ridurrà l’uso del petrolio e del carbone. Anche se rimarranno fondamentali le forniture di gas naturale e nonostante il traguardo della neutralità energetica sembri lontano si otterranno rilevanti benefici rispetto alla situazione attuale e si avrà una significativa diminuzione dei più gravi problemi provocati dal cambiamento climatico incontrollato come siccità, carestie e inondazioni con conseguenti migrazioni di massa. Parallelamente, i petrostati saranno spinti ad attuare riforme a livello economico, sociale e politico e a regolamentare le proprie industrie energetiche. I prezzi non saranno più determinati da pochi grandi attori, ma si formeranno in relazione a una maggiore concorrenza e a un aumento di efficienza del sistema produttivo. Questo nell’ipotesi di una transizione energetica gestita in modo graduale ma deciso. In caso contrario la Cina potrebbe avvantaggiarsi in modo considerevole grazie al suo dominio nella produzione dei componenti essenziali per il funzionamento e lo sviluppo delle nuove tecnologie.
Dubbi sulle sanzioni
Le aziende cinesi producono infatti a livello globale circa il settantadue per cento dei pannelli solari, il sessantanove per cento delle batterie agli ioni di litio, il quarantacinque per cento delle turbine eoliche e controllano parti fondamentali del processo di raffinazione di materiali indispensabili per ottenere energia pulita come il cobalto. Se a questo aggiungiamo che il governo ha avviato importanti investimenti a favore delle auto elettriche, possiamo affermare che la Repubblica popolare cinese potrebbe diventare il primo “elettrostato”. Nello stesso tempo i petrostati, che attualmente rappresentano circa l’otto per cento del prodotto interno lordo mondiale e quasi novecento milioni di cittadini, a mano a mano che la domanda di petrolio diminuirà saranno molto probabilmente spinti a combattere tra loro una dura battaglia per mantenere o ridurre il meno possibile le proprie quote di mercato, in cui saranno avvantaggiati i paesi produttori del petrolio più economico e meno inquinante. Di conseguenza molti di loro avranno difficoltà a realizzare le riforme politiche ed economiche indispensabili per affrontare il profondo mutamento in atto in campo energetico. L’imposizione di dazi da parte dell’Unione europea non si annuncia inoltre privo di problemi e può avviare una guerra commerciale con chi ha regole sul clima meno flessibili. Dato che non esiste una borsa mondiale in cui si scambiano quote di Co2, con un benefico effetto sui costi delle quote (potrebbero diminuire di quasi l’ottanta per cento), appare però difficile conciliare l’esigenza di applicare sanzioni senza cadere nel protezionismo, con conseguenze dannose sul commercio internazionale. Una soluzione potrebbe venire dall’economista americano William Nordhaus, docente alla Yale University e premio Nobel per l’Economia nel 2018 per aver saputo integrare i cambiamenti climatici con le innovazioni tecnologiche, che suggerisce la formazione di un’associazione tra diversi paesi di differenti aree geografiche per stabilire il prezzo di scambio delle emissioni in modo da imporre tariffe svantaggiose a quelle nazioni che non accettano di aderirvi. Il passaggio alle energie rinnovabili senza combustibili fossili si preannuncia quindi non lineare e difficile. Mantenere la temperatura del globo entro 1,5 gradi centigradi o almeno al di sotto dei due gradi richiede investimenti a livello globale molto superiori a quelli finora previsti ed è alta la tentazione di procedere più lentamente di quanto è necessario.
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“I combustibili fossili rappresentano l’85 per cento dell’energia utilizzata nel pianeta e causano i due terzi delle emissioni di gas serra”
“Si è formato un mercato in cui chi produce più Co2 può acquistare dei certificati da chi ne diffonde meno entro un totale prestabilito”
“Le aziende internazionali dei settori più inquinanti che vogliono esportare i loro prodotti nell’Ue dovranno pagare per le emissioni provocate”
“Si avrà una significativa diminuzione dei problemi arrecati dal cambiamento climatico incontrollato come siccità, carestie e inondazioni”
“Data la complessità della materia e gli interessi divergenti di molti paesi, per la sfida verde europea si annuncia un difficile iter legislativo”
“Il passaggio alle energie rinnovabili senza combustibili fossili richiede investimenti a livello globale molto superiori a quelli finora previsti”