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Cambiare l’agenda per evitare il disastro

I fenomeni estremi che ci colpiscono da ormai molti anni sono solo un anticipo delle condizioni in cui saremo costretti a vivere se non riusciremo a diventare protagonisti di una svolta radicale basata su nuove idee e diversi comportamenti in grado di influire concretamente sull’attuale sistema produttivo, che è la causa principale dei profondi squilibri ambientali di cui vediamo gli effetti sempre più devastanti ma dei quali troppo spesso evitiamo di comprendere e contrastare le cause. Come avverte un recente report del The National Climate Assessment (NCA) condiviso da tredici agenzie federali degli Stati uniti (https://nca2018.globalchange.gov) i cambiamenti climatici creano nuovi rischi ambientali, aggravano i problemi esistenti nel territorio e rappresentano delle crescenti sfide per quanto riguarda la salute, la sicurezza e la qualità della vita. Dal punto di vista economico, senza una forte e decisa diminuzione degli effetti più negativi del Climate change si prevedono danni crescenti alle infrastrutture e alle proprietà pubbliche e private con un conseguente sensibile abbassamento delle previsioni globali di crescita. Lo studio NCA evidenzia inoltre che questi mutamenti possono provocare degli esiti imprevedibili sulla solidità dei nostri sistemi sociali sia a livello nazionale sia locale e, di conseguenza, sui principi stessi della democrazia.

Equilibri perduti
Da alcuni anni le comunità e le imprese più attente ai problemi ambientali si sono impegnate nella diminuzione dei rischi legati al cambiamento climatico con interventi che hanno lo scopo di contenere l’emissione dei gas serra e di contrastarne le conseguenze, ma questi sforzi non sono ancora sufficienti a evitare i danni più rilevanti causati all’ambiente e al sistema economico. Tra questi assumono un’importanza particolare la qualità e la quantità di acqua disponibile per le persone e gli ecosistemi che mettono a rischio la produzione agricola, industriale e la salute umana già minacciata, soprattutto nei grandi centri abitati, dalle cattive caratteristiche dell’aria e dalla maggiore facilità di trasmissione di malattie attraverso la diffusione di insetti e parassiti. Il cambiamento climatico costituisce un rischio molto elevato anche per l’esistenza delle comunità indigene, perché colpisce direttamente il loro territorio, la loro economia e ne mette in crisi il sistema sociale e la stessa identità. Di conseguenza, queste popolazioni sono costrette a mettersi in cammino verso quelle regioni in cui è ancora possibile avere diverse condizioni di vita. Si moltiplicano così i movimenti e le marce del people on move dall’Africa, dall’Asia, dall’America centrale e meridionale. Un flusso sempre più ampio di persone che cercano di attraversare muri e barriere di ogni tipo eretti dai paesi meno colpiti dal disastro ecologico.

Problemi da risolvere
Senza una riduzione continua e sostanziale delle emissioni globali di gas serra, che hanno già avuto un impatto negativo sulla biodiversità e danneggiato alcuni ecosistemi fondamentali per l’equilibrio ambientale come le foreste, le barriere coralline, i ghiacci artici e antartici, lasceremo alle prossime generazioni un’eredità estremamente difficile da gestire con crescenti problemi per ristabilire gli equilibri perduti. L’aumento delle temperature, il caldo estremo, la siccità, gli incendi boschivi ma anche le piogge sempre più violente e concentrate in zone ristrette e in un periodo limitato di tempo, oltre ad aumentare i rischi di dissesto idrogeologico e il deterioramento delle infrastrutture come ponti, strade e centrali idroelettriche, causano danni crescenti alla produttività agricola e minacciano la qualità e la quantità delle colture, la salute e il benessere degli animali e, di conseguenza, anche la sicurezza alimentare e la stabilità dei prezzi. È quindi indispensabile agire subito non solo per ridurre le emissioni di Co2 , che nei mesi scorsi hanno raggiunto il livello più elevato da ottocentomila anni, ma anche per attuare strategie che possano facilitare la rigenerazione ambientale in modo da diminuire sensibilmente l’esposizione e la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici e facilitare la salvaguardia delle specie vegetali e animali più a in pericolo. Nel The Global Risk Report 2019 realizzato dal Word Economic Forum (https://www.weforum.org/reports/the-global-risks-report-2019) che ogni anno presenta i risultati di un sondaggio tra politici ed esperti internazionali sulla percezione delle principali sfide da affrontare e le maggiori minacce da combattere per salvaguardare gli equilibri mondiali, sono emersi come dominanti i danni legati alle trasformazioni del territorio sui problemi economici, sociali, geopolitici e tecnologici (frodi, attacchi informatici e fake news appaiono in fondo alla classifica). I tre maggiori pericoli, anche in relazione alla probabilità con cui possono accadere, sono stati gli eventi metereologici estremi seguiti dagli insufficienti risultati ottenuti per limitare gli effetti negativi del cambiamento climatico e i disastri naturali. Gli autori del rapporto hanno così commentato i dati della ricerca: “Is the world sleepwalking into a crisis? Global risks are intensifying but the collective will to tackle them appears to be lacking” (Di fronte alla crisi il mondo si comporta come un sonnambulo? I rischi globali si stanno intensificando ma manca la volontà collettiva di affrontarli).

Lotta contro il tempo
Secondo il report Global Warming of 1.5 °C dell’Ipcc (The Intergovernmental Panel on Climate Change, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni unite) uscito nell’ottobre del 2018 (https://www.ipcc.ch/sr15/) abbiamo tempo fino al 2030 per arginare il catastrofico cambiamento in atto. Restano quindi dieci anni per non superare il punto di non ritorno ed evitare che i mutamenti climatici diventino irreversibili, ma servono da subito azioni concrete da parte di tutti gli stati in modo da contenere l’aumento della temperatura a un grado e mezzo e comunque al di sotto dei due gradi definito dall’accordo di Parigi del 2015. In Climate Leviathan: A Political Theory of Our Planetary Future (Verso, pp. 224, 26,95 dollari, eBook 19,62 dollari) Joel Wainwright, docente di geografia alla Ohio State University e Geoff Mann, direttore del Center for Global Political Economy alla Simon Fraser University analizzano come, nonostante gli allarmi degli scienziati e gli impegni presi nei vertici internazionali dai governi di tutto il mondo, non si sia ancora riusciti a diminuire le emissioni di Co2. Di conseguenza sarà sempre più difficile riuscire a evitare che il riscaldamento terrestre rimanga sotto la soglia critica dei due gradi.

Crisi ecologica e politica
Per Wainwright e Mann, in mancanza di interventi radicali il cambiamento climatico trasformerà non solo l’ambiente in cui viviamo ma anche l’economia e le strutture stesse degli stati nazionali. Dopo un lungo periodo di conflitti che porterà alla crisi delle democrazie liberali potrebbe nascere una nuova forma di sovranità planetaria con conseguenti gravi problemi all’ordine globale esistente. Sarà il primo grande cambiamento che segue quello della moderna idea di sovranità teorizzato da Hobbes. L’emergere di figure autoritarie come per esempio quelle di Trump negli Stati uniti, Bolsonaro in Brasile e Narendra Modi in India rappresentano i primi sintomi di una crisi che è nello stesso tempo ecologica, politica ed economica. Una deriva, solo mitigata dall’introduzione di imposte sulle emissioni nocive come la carbon tax o dagli incentivi all’acquisto di pannelli solari e fotovoltaici, che ha obbligato un numero crescente di persone ad abbandonare la loro terra a causa dei mutamenti ambientali, ma non esiste ancora una definizione internazionale di “rifugiato climatico” (l’Onu non l’ha finora approvata) di chi cioè è costretto a migrare a causa del clima allo stesso modo di chi deve fuggire da conflitti armati o persecuzioni.

Solidarietà transnazionale
Tra Stati uniti, Europa, Africa, America centrale e meridionale, Asia e Oceania ci sono attualmente decine di milioni di rifugiati climatici che potrebbero arrivare a duecento milioni nel 2050 e addirittura a un miliardo secondo il rapporto Lancet Countdown 2017 (http://www.lancetcountdown.org). Di fronte a questa difficile situazione, sottolineano Wainwright e Mann, la globalizzazione neoliberale non è riuscita a trovare risposte e ha minato le fondamenta dell’ordine internazionale. Ha polarizzato i redditi ed eroso le speranze di migliorare il proprio status economico e sociale (in Occidente siamo tornati a una concentrazione della ricchezza simile a quella dell’Ottocento) e ha così infranto il sogno di un capitalismo capace di distribuire la ricchezza. I paesi in via di sviluppo saranno inoltre sempre meno disposti ad accettare i limiti ambientali per la salvezza del pianeta imposti dalle nazioni più ricche, che per lungo tempo hanno potuto raggiungere l’attuale livello di benessere senza porsi nessun problema sul rispetto dell’habitat e, attraverso disinvolte azioni finanziarie, commerciali e militari hanno aiutato industrie altamente inquinanti come quella petrolifera. Da qui nasce l’esigenza di sviluppare nuove idee e una diversa teoria politica, che riesca a superare queste contraddizioni e suggerisca azioni concrete e condivise su cui far convergere l’interesse comune attraverso forme di solidarietà transnazionale. Un utile punto di partenza potrebbe essere un impegno comune per rimuovere la plastica da mari e oceani, che costituisce uno dei maggiori pericoli per la salute del pianeta e umana dato che le sostanze inquinanti assorbite nelle microplastiche entrano nel tessuto muscolare dei pesci e di conseguenza nella catena alimentare. Oltre a diffondere pratiche semplici e diffuse come il recupero e il riutilizzo e un’educazione di base che faccia comprendere i pericoli di gesti diffusi come quello di gettare rifiuti in mare, per recuperare le enormi quantità di plastica accumulata (secondo l’autorevole rivista online Scientific Reports in una zona a nord del Pacifico ci sono duemila miliardi di oggetti di plastica del peso ci circa ottantamila tonnellate impossibili da eliminare con i metodi tradizionali) è indispensabile investire nella ricerca scientifica e tecnologica e l’uso di metodi alternativi come l’utilizzo delle correnti per aggregare e far confluire le plastiche verso linee costiere artificiali dove possono essere raccolte e poi riciclate.

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“Un numero sempre più elevato di people on move, cerca di attraversare i muri e le barriere eretti dai paesi meno colpiti dal disastro ecologico”

“Per The Global Risk Report 2019 del Word Economic Forum i danni al territorio superano i pericoli economici, sociali, geopolitici e tecnologici”

“Secondo lo studio Global Warming of 1.5 °C dell’Ipcc restano ormai poco più di dieci anni per evitare di superare il punto di non ritorno” 

“In mancanza di interventi radicali il Climat Change trasformerà non solo l’ambiente in cui viviamo ma anche le strutture degli stati nazionali”

“Per superare questi problemi è indispensabile esprimere nuove idee e diverse politiche che consentano di sviluppare azioni condivise”

John Pule, Kehe tau hauaga foou (To all new arrivals), 2007. Dalla mostra Oceania, Royal Academy of Arts, Londra
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