Un’egemonia sul viale del tramonto

Una potenza declinante, gli Stati uniti, cui si contrappone in modo sempre più evidente e incisivo la Cina, la potenza emergente. È questo il paradigma che sembra prefigurare il nuovo ordine mondiale. Un predominio iniziato nel 1945-46 dopo la conquista in pochi anni della supremazia sui mari, sostenuta da una straordinaria produzione industriale, che oggi manifesta numerosi segni di incertezza e debolezza particolarmente evidenziati negli anni di Trump, che ha spesso preso le distanze delle regole su cui si basa l’ordine internazionale. Una tendenza dalla quale cerca di allontanarsi la presidenza Biden, che deve però continuamente confrontarsi con l’opposizione repubblicana e con un’ampia parte della popolazione che si riconosce nelle politiche trumpiane. Tre libri usciti negli Stati uniti analizzano attentamente, con differenti metodi, la situazione attuale e giungono a conclusioni differenti, ma utili per valutare le possibili evoluzioni geopolitiche nel prossimo futuro e a medio termine. Se in An Open World: How America Can Win the Contest for Twenty-First-Century Order (Yale University Press, pp. 216, 26 dollari) Rebecca Lissner, docente all’U.S. Naval War College e Mira Rapp-Hooper del Dipartimento di Stato americano si rivelano cautamente ottimiste sul futuro degli Usa, in A World Safe for Democracy: Liberal Internationalism and the Crises of Global Order (Yale University Press, pp. 432, 30 dollari) G. John Ikenberry, docente di Politiche e Relazioni internazionali alla Princeton University, si dichiara fiducioso nella continuità dei valori occidentali, ma perplesso riguardo il futuro della potenza americana.

Struttura tradizionale
In Exit from Hegemony:The Unraveling of the American Global Order (Oxford University Press, pp. 256, 22,99 sterline, eBook 17,52 euro) Alexander Cooley, docente di Scienze Politiche al Barnard College della Columbia University e Daniel Nexon, professore associato di Politiche governative alla Georgetown University si mostrano scettici sulle prospettive degli Stati Uniti come potenza ancora egemone a livello mondiale e prevedono un suo possibile primato solo in un contesto in cui diversi paesi si contenderanno la supremazia. Prima di descrivere il contenuto di questi libri, che analizzano la scena internazionale esclusivamente dal lato politico, economico, militare e quella interna in base alla profonda divisione tra sinistra e destra, democratici e repubblicani, è bene tenere presenti alcuni degli eventi che hanno espresso la ritrovata capacità di autorinnovamento di una componente significativa della società americana come l’ondata di proteste seguite all’uccisione da parte della polizia di George Floyd a Minneapolis, diventate in tutto il mondo un simbolo della lotta contro il razzismo e per la conquista della giustizia sociale e il diverso modo di formazione dell’opinione pubblica, che non è più dettata dalle élite intellettuali e dalle opinioni di alcuni importanti giornali e network tv, ma si forma soprattutto attraverso i nuovi media e l’informazione indipendente. A questo si deve aggiungere che la struttura dei tre volumi, con la parziale eccezione di Exit from Hegemony, il quale non ignora la presenza in Africa della Cina e si sofferma su come il paese asiatico sia riuscito a costruire una base militare nell’area strategica di Gibuti grazie agli aiuti economici e allo sviluppo di attività commerciali, è quella tradizionale delle relazioni internazionali in cui vengono trascurate le realtà dei paesi emergenti non solo dal punto di vista politico e sociale, ma anche per quanto riguarda la fornitura alle potenze atlantiche di risorse naturali e manodopera sempre più essenziali per il suo benessere. È inoltre fondamentale considerare l’impatto che l’Africa avrà a livello globale in seguito alla forte crescita della popolazione. Attualmente il continente africano conta circa un miliardo e quattrocentomila abitanti, ma la Population Division delle Nazioni unite prevede che entro il 2050 raggiungerà i due miliardi e mezzo e a fine secolo potrebbe arrivare a quasi quattro miliardi e mezzo, un numero più elevato di quello di Cina e India messe insieme. Questo avrà un effetto molto significativo su ambiente, cambiamenti climatici, migrazioni, conflitti, domanda di beni, servizi e sugli assetti istituzionali nella contesa tra democrazia e autoritarismo. Lo sviluppo economico e politico dell’Africa sarà molto probabilmente l’evento centrale del XXI secolo cui gli Stati uniti dovrebbero prestare una maggiore attenzione e dedicare più energie per non lasciare il campo libero alla Cina, che potrà contare su un’economia sempre più grande e una capacità militare notevolmente aumentata senza dimenticare la crescente influenza di potenze regionali come la Federazione russa e l’Iran.

Diverso equilibrio
In An Open World Rebecca Lissner e Mira Rapp-Hooper sostengono che Washington potrebbe perdere il primato militare e dovrà affrontare paesi sempre più potenti, che tendono a modificare gli assetti stabiliti nei trattati internazionali. Sottolineano che la crisi della leadership Usa non è, come spesso si afferma, un problema sorto in seguito al Covid-19 oppure causato da decisioni della presidenza Trump, ma è stato provocato da una serie di fattori strutturali che prolungheranno i loro effetti negativi per alcuni decenni. Gli Stati uniti, nonostante la diminuita capacità di influenza, per contrastare questa tendenza dovranno attuare una strategia basata sull’interdipendenza economica e sul sostegno alle nazioni democratiche nel rispetto delle caratteristiche nazionali in modo da depotenziare le iniziative dei regimi autoritari e prevenire le loro azioni per la creazione di diverse sfere di influenza. Lissner e Rapp-Hopper precisano inoltre che nel nuovo ordine mondiale Cina e Federazione russa saranno sempre più attive sul fronte della guerra cibernetica, attuata attraverso il danneggiamento sistematico delle postazioni strategiche americane. Di conseguenza sarà fondamentale mantenere e ampliare la collaborazione con gli alleati tradizionali e con quei paesi, come l’India, che possono appartenere a quello che le due autrici definiscono an open international system, un “sistema internazionale aperto”, un ordine in cui nessun paese deve avere un’area di influenza esclusiva sul commercio e sul flusso di informazioni.

Crisi della democrazia
Per attuare una strategia “aperta” gli Stati uniti dovranno però, secondo Lissner e Rapp-Hopper, mantenere la loro posizione di nazione più potente del mondo, nonostante la crisi della loro egemonia, attraverso il miglioramento continuo dell’istruzione, il rafforzamento dei network aziendali impegnati in modo particolare nell’innovazione, nella ricerca e nei settori della sicurezza. Nella politica americana, malgrado i dubbi e i timori di un declino del paese, rimane comunque difficile rinunciare alle tradizionali parole d’ordine, in particolare all’idea dell’America nazione leader del mondo, ma l’attuale situazione nel Mar Cinese Meridionale, una zona particolarmente delicata ai confini con l’India, dove oltre alla Cina si affacciano Vietnam, Malaysia, Filippine e Indonesia, ci aiuta a comprendere meglio la conflittualità tra gli Stati uniti e la Repubblica Popolare Cinese. Dalla fine dell’amministrazione Obama, Pechino in contrasto con le decisioni dei tribunali internazionali ha iniziato ad attuare una rapida espansione navale e missilistica, a mettere in atto una politica aggressiva per rivendicare la sovranità su alcuni isolotti contesi con i paesi vicini e a costruire isole artificiali da utilizzare come basi militari. Anche se il Pentagono ha inviato delle portaerei per dimostrare la volontà di mantenere il controllo dell’area, appare difficile pensare che gli Stati uniti potrebbero prevalere nel caso di un conflitto con la Cina nell’estremo Pacifico occidentale. Cooley e Nexon in Exit from Hegemony ritengono infatti che dopo due decenni di supremazia, Washington deve prendere atto della sua diminuita influenza a livello planetario e in modo particolare nell’Asia orientale per ragioni che non dipendono dall’apparato militare, ma sono causate dal declino dell’ordine liberale internazionale, l’assetto formato dagli Stati uniti e dei loro principali alleati posto alla prevenzione e alla gestione delle crisi a livello globale in un momento storico in cui sembrava inarrestabile la transizione al mercato e, di conseguenza, alla democrazia. Ma se fino a qualche anno fa la sintesi tra democrazia e mercato proposta dall’Occidente costituiva un riferimento normativo irrinunciabile per tutte le altre nazioni, oggi molti paesi non guardano più con favore a questo modello. È quindi soprattutto una crisi del mondo occidentale a porsi come paradigma, che comincia, molto prima di Trump, cioè dopo la decisione di George W. Bush di invadere l’Iraq nel 2003. Una scelta che oltre a frammentare e a destabilizzare tutta la regione mediorientale ha iniziato a mettere in discussione la credibilità e il prestigio degli Stati uniti, non più percepiti come la nazione indispensabile per mantenere l’ordine mondiale. Un ridimensionamento che ha portato gli Usa a chiedere ai propri alleati una condivisione delle responsabilità e alla rinuncia degli impegni non considerati fondamentali come testimonia per esempio il ritiro dall’Afganistan.

Disordine crescente
Riguardo al patto regionale stipulato dal Giappone dopo la decisione di Trump di lasciare il Progressive Trans Pacific Partnership che ha portato al Comprehnsive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, cui insieme al Giappone hanno aderito Australia, Brunei, Canada, Cile, Malaysia, Messico, Perù, Nuova Zelanda, Singapore, Vietnam e sul quale gli Usa si sono astenuti, Lissner e Rapp-Hopper elogiano gli sforzi del Giappone, che a loro parere rafforza l’ordine economico della regione e serve a bilanciare la continua crescita della Cina. Sul ruolo della Germania in Europa pensano inoltre che contribuisca alla stabilizzazione dell’Unione europea e, di conseguenza sia utile per preservare lo status quo a livello regionale e globale. Per Cooley e Nexon queste situazioni confermano invece il declino della leadership Usa perché, anche se con la presidenza Biden Giappone e Germania possono probabilmente nutrire fiducia verso un graduale ritorno alle relazioni multilaterali esistenti prima di Trump, il paese asiatico e l’Unione europea hanno siglato un accordo di libero scambio, che da una parte rafforza l’ordine internazionale, ma dall’altra indebolisce il sistema economico e politico americano. Cooley e Nexon ritengono infatti che gli Stati uniti proseguiranno la loro decadenza indipendentemente dalle politiche che Biden metterà in campo. Secondo i due studiosi questo non significa che la Cina sarà in grado di costruire un nuovo ordine, ma che siamo entrati in uno stato di crescente disordine e imprevedibilità (gli scienziati della politica lo definiscono entropia) il quale potrebbe portare a una divisione del modo in due sfere di influenza dominate rispettivamente da Stati uniti e Cina con il conseguente possibile inizio di una nuova guerra fredda.

Poteri emergenti
Oltre a una nuova guerra fredda basata sul controllo delle rotte marittime e l’aumento del contingente militare collocato in ogni continente, Cooley e Nexon ipotizzano la possibile costituzione di un nuovo ordine non liberale, oppure l’avvento di un’oligarchia e di una cleptocrazia formata da piccole élite colluse a livello globale. I due autori precisano infine che negli ultimi cinquant’anni gli Usa hanno più volte rischiato di perdere la leadership a causa di motivi economici, politici e militari come alla fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro nel 1971, dopo il ritiro dal Vietnam nel 1973, o in seguito alla crisi finanziaria del 2007, ma in passato avevano come rivali un’Unione Sovietica in crisi politica ed economica e una Cina chiusa nei suoi confini. Oggi Cina e Russia non hanno interessi divergenti e costituiscono un insieme molto più potente, e alternativo agli Usa, cui fanno riferimento numerosi i paesi, in modo particolare in Africa e Medio Oriente. Senza dimenticare le potenze regionali come Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi uniti che sono diventati influenti investitori e creditori dei paesi in via di sviluppo. In A World Safe for Democracy Ikenberry, sostenitore dell’ordine internazionale liberale, nato circa duecento anni fa ai tempi delle guerre napoleoniche e consolidato nel XX secolo con la sconfitta dei fascismi in Europa e la creazione di istituzioni come le Nazioni Unite, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, ritiene invece che anche in questo secolo, segnato da una crescente interdipendenza economica e di sicurezza e da un quadro politico radicalmente diverso rispetto al passato, gli ideali riformati e reinventati dell’internazionalismo liberale basati sulla democrazia, i diritti civili, la libertà di religione, parola, informazione e la separazione dei poteri rimangano il progetto più efficace. A differenza di Cooley e Nexon che li considerano invece “a shorthand for a fairly benign form of US hegemony” (una forma non violenta di egemonia).

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“Washington si confronterà nel prossimo futuro con paesi sempre più potenti, che tendono a modificare gli assetti stabiliti nei trattati internazionali”

“Per contrastare questa tendenza gli Usa attueranno una strategia basata sull’interdipendenza economica e sul sostegno alle nazioni democratiche”

“Per mantenere l’egemonia gli Stati uniti dovranno migliorare il livello di istruzione e rafforzare la ricerca, l’innovazione e la sicurezza”

“La crisi degli Usa trae origine dalle crescenti difficoltà dell’ordine liberale internazionale a porsi come riferimento per le altre nazioni”

“Siamo entrati in uno stato di disordine, che potrebbe portare a una divisione del mondo in due sfere di influenza dominate da Stati uniti e Cina”

“Una situazione difficilmente prevedibile che può portare a una nuova guerra fredda o alla formazione di un più articolato sistema internazionale”

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L’AMERICA È ANCORA IL “POLIZIOTTO DEL MONDO”?
Il declino dell’idea dell’uso della forza per ragioni di sicurezza o “umanitarie”

Alla fine della seconda guerra mondiale gli Usa sono diventati la nazione egemone a livello planetario. Come ha detto il presidente Harry Truman al Congresso degli Stati uniti nel 1945: “We must relentlessly preserve our superiority on land and sea and in the air” (Dobbiamo mantenere costantemente la nostra superiorità su terra, mare e cielo) e oggi il Pentagono controlla circa 750 basi militari situate in 80 paesi stranieri. Un impero frammentato che domina il mondo. Anche senza disporre di truppe a terra, i droni Usa sorvegliano persone e luoghi e possono lanciare missili. “If we have to use force, it is because we are America… We stand tall and we see further than other countries into the future” (Se dobbiamo usare la forza è perché siamo l’America. Ci troviamo in alto e vediamo il futuro meglio di altri paesi), ha affermato Madeleine Albright, Segretaria di stato di Bill Clinton. Concetti ribaditi da altri presidenti come il Premio Nobel per la pace Barack Obama, che ha giustificato l’uso della forza per ragioni umanitarie e per assicurare la sicurezza globale, ma su cui l’opinione pubblica di tutto il mondo ha iniziato a porsi delle domande come: “Perché un solo paese può esercitare tanto potere di cui spesso abusa?”, “Chi deve far rispettare le regole del diritto internazionale?”. Questi interrogativi sono presenti nel libro di Patrick Porter The False Promise of Liberal Order (Polity, pp. 224, 19,95 dollari, Ebook 16 dollari) in cui il docente di Sicurezza e strategia internazionale dell’Università di Birmingham afferma che l’idea stessa di ordine liberale è contraddittoria perché mentre il liberalismo dovrebbe esprimere valori come libertà, uguaglianza e consenso, gli ordini internazionali sono gerarchie basate sulla minaccia della forza. Aggiunge che gli Stati uniti sono un’egemonia e che l’egemonia equivale al dominio, quindi cita un episodio emblematico. Nel 1998 dopo la creazione della Corte penale internazionale, il Congresso Usa ha approvato una legge votata anche da presunti “campioni dell’internazionalismo” come John Kerry, Hillary Clinton e Joe Biden che autorizza la forza militare a liberare personale Usa o alleato eventualmente imprigionato dalla Corte. Ma, conclude Porter, fino a quando l’America potrà permettersi di continuare a svolgere il ruolo di “poliziotto del mondo”, iniziato quando la sua economia era maggiore di quella delle altre principali nazioni sommate insieme?

Disegno del pavimento dell’antica abbazia di Saint-Bertin
(Saint-Omer, Francia) realizzato da Emmanuel Wallet nel 1834. Dal libro “Dizionario dei simboli” di Juan Eduardo Cirlot (Adelphi Edizioni).



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