Nella maggior parte degli stati occidentali, con la parziale eccezione delle socialdemocrazie scandinave, il sistema democratico è minacciato da numerosi pericoli tra cui un diffuso nazionalismo e il desiderio di “uomini forti”. I problemi che si incontrano nell’attività di governo si presentano in modi differenti a seconda dei diversi paesi ma con alcune caratteristiche comuni tra cui la difficoltà a formare un esecutivo stabile perché generalmente il partito di maggioranza relativa non controlla in modo sicuro il parlamento, oppure perché i partiti, nonostante lunghi e complessi negoziati, non hanno la capacità di organizzare un’alleanza equilibrata e duratura sulla base dei risultati elettorali. Spesso i governi non riescono ad approvare leggi fondamentali per garantire la sostenibilità del bilancio dello stato o al contrario, come per esempio in Ungheria, aumentano eccessivamente il potere dell’esecutivo a danno degli equilibri democratici. Negli ultimi anni gli Stati uniti si sono invece contraddistinti, almeno fino alle ultime elezioni, per la mancata approvazione di leggi significative per il partito del presidente tra cui l’abrogazione dell’Affordable Care Act (l’“Obamacare”) o di primaria importanza come il miglioramento delle reti di infrastrutture spesso fatiscenti anche quando i repubblicani hanno controllato per due anni entrambi i rami del parlamento. A queste gravi lacune si aggiungono lo scarso rispetto delle procedure parlamentari, il mancato adempimento di importanti norme costituzionali, una corruzione diffusa e l’inadeguatezza di un ceto politico che tende a mantenere i propri privilegi e a preferire decisioni a vantaggio di ristretti gruppi di potere contro l’interesse dei cittadini.
Declino inarrestabile?
Anche se non si può affermare che i paesi occidentali sono diventati ingovernabili, dato che non vengono paralizzati da rivolte o moti di piazza particolarmente violenti, almeno se paragonati a quelli degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la maggior parte dei loro governi si trova tuttavia nella condizione di essere continuamente tenuta sotto pressione da controversie e lotte di potere ed è troppo debole sia per attuare riforme strutturali idonee a salvaguardare il welfare state e adeguarlo alle mutate situazioni sociali sia per promuovere la produttività e favorire la formazione di nuovi modelli di sviluppo. Il confronto con gli anni Sessanta e Settanta mostra inoltre un quasi totale ribaltamento delle condizioni politiche ed economiche. Anche se si iniziano a intravedere segnali di un suo possibile ritorno, attualmente l’inflazione non fa paura e viene addirittura considerata troppo poco elevata per sostenere in modo adeguato il sistema produttivo. Inoltre, tranne alcune eccezioni e i problemi causati dal Covid-19, la disoccupazione non è alta e i salari e gli stipendi sono in leggero ma costante aumento, ma i governi appaiono bloccati. Si tratta di un fenomeno destinato a diventare permanente oppure è solo transitorio? In questo momento, soprattutto in Europa, possiamo constatare il declino forse inarrestabile dei grandi partiti politici, i quali per lungo tempo sono stati dei componenti fondamentali della democrazia parlamentare per il ruolo svolto nella stesura dei programmi elettorali, nella identificazione dei candidati e nella raccolta dei voti, ma che ora sono estremamente fluidi e con un’identità sempre più incerta. Di conseguenza, hanno crescenti difficoltà a mobilitare gli elettori e una minore capacità di governo, cui si aggiunge il sentimento molto diffuso di rappresentare una casta e di trasformare la democrazia in una oligarchia la cui prevalente occupazione è quella di garantire ai propri componenti numerosi benefici che si contrappongono all’interesse generale. Un altro elemento di debolezza è costituito dall’ampio movimento populista che in forme diverse attraversa quasi tutti i paesi occidentali, di cui l’Ungheria è un caso emblematico. Fidesz, il partito al potere presieduto dal primo ministro Victor Orban, si è servito della maggioranza parlamentare per controllare la giustizia, le autorità di vigilanza, il sistema dei media, il mondo del business e manipolare le regole per le elezioni. Con la maggioranza in Parlamento ha potuto cambiare le leggi senza doverle infrangerle e, grazie a un’informazione addomesticata e a un’amministrazione fiscale al proprio servizio si sono colpiti i nemici senza dover compiere violenze fisiche. Formalmente l’Ungheria è una democrazia, ma nella realtà è una nazione a partito unico. Una situazione analoga si può riscontrare in Polonia dove il partito Law and Justice ha seguito le stesse orme. Ma la deriva che porta alla soppressione o alla riduzione di molte conquiste sociali e politiche ha contagiato, pur se in modo meno evidente, anche tante democrazie di lunga data.
Incompetenza e corruzione
Si è così consolidata una tendenza negativa in cui al sempre più scarso rispetto dei diritti dei cittadini si aggiungono il desiderio di alimentare un diffuso risentimento e sfruttare i pregiudizi su tanti temi sensibili come quello dell’immigrazione. Contemporaneamente, la maggior parte degli elettori ritiene di essere governata da élite che troppo spesso, all’arroganza e al cinismo uniscono incompetenza ed egoismo. In un sondaggio in numerosi paesi del mondo dell’aprile 2019 del Pew Research Center, l’istituto indipendente con sede a Washington che si occupa di analisi delle politiche pubbliche, (https://www.pewresearch.org/global/2019/04/29/many-across-the-globe-are-dissatisfied-with-how-democracy-is-working/) oltre la metà degli elettori di otto paesi europei e degli Stati uniti ha dichiarato di essere insoddisfatta del funzionamento della democrazia e una gran parte di loro ritiene che i politici siano corrotti. I partiti populisti cercano di far dimenticare che anche molti dei loro rappresentanti spesso appartengono a gruppi di pressione e interesse e fanno leva sul malcontento di ampie fasce della popolazione per alimentare rabbia e divisione. Il diffuso cinismo dei politici trascina insomma la democrazia verso il basso attraverso un movimento a spirale che sembra non avere fine, tende a polarizzare il conflitto e a estremizzarlo. Ma nel corso del tempo la democrazia ha accumulato dei forti anticorpi e una capacità di rinnovarsi che, anche se con difficoltà, dovrebbe farle superare questo difficile momento.
La lezione degli anni 30
Contro la crisi della democrazia, l’unica istituzione che permette ai cittadini di riconoscersi in una convivenza civile regolata da norme comunemente accettate, formatasi dopo un difficile cammino di superamento delle organizzazioni per clan e tribù, le quali tendono però inevitabilmente a riformarsi quando lo stato non assolve più ai propri compiti, ha iniziato a mobilitarsi un ampio numero di persone, tra cui una percentuale elevata di giovani, che si battono per proteggere una così preziosa eredità. Da qualche tempo affiorano significativi sintomi di rinascita in paesi con una forte impronta populista tra cui è importante ricordare la storica sconfitta nel giugno 2019 del candidato sostenuto dal “sultano”, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, da parte di Ekrem Imamoglu nell’elezione del sindaco di Istambul, cuore economico e finanziario del paese, o l’elezione dell’attivista Zuzana Čaputová alla presidenza della Repubblica Slovacca, cui si devono aggiungere le forti proteste nella Repubblica Ceca, in Romania e Moldavia contro leader con idee vicine a quelle di Orban, senza dimenticare il coraggio di chi ha protestato lungo le strade di Hong Kong, Mosca e Teheran. Ma come affrontare le sfide sempre più impegnative che si presenteranno nel futuro? Un aiuto può venire dalla rilettura di alcuni episodi che hanno caratterizzato gli anni Trenta del secolo scorso, uno dei periodi più complessi e difficili che la democrazia ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. Dopo le lotte ottocentesche per sostituire le monarchie europee che regnavano ancora per “diritto divino” con le democrazie costituzionali e lo stato di diritto, il fascismo, il nazismo e il comunismo sono riusciti a rovesciare in breve tempo i governi di numerosi paesi europei. Contemporaneamente, la democrazia americana, indebolita dalla corruzione, dalle disuguaglianze, dalla violenza, dall’ingiustizia nei confronti delle minoranze, dalla disoccupazione e della miseria in seguito alla Grande depressione del ‘29 si trovava in un momento di estrema difficoltà, che ha superato anche grazie al contributo di idee dei tanti comitati di cittadini nati per difendere i propri diritti fino al Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965, le leggi federali che durante la presidenza di Lyndon Johnson hanno dichiarato la fine della segregazione razziale nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni pubbliche e la discriminazione nel voto. Nel 1932 è stata fondamentale la campagna del presidente Franklin Delano Roosvelt con la promessa di salvare la democrazia attraverso il New Deal, il nuovo patto per il popolo americano con cui gli Stati uniti sono usciti dalla Grande depressione. Un messaggio che ha fatto comprendere la forza e la supremazia di un governo democratico nei confronti delle dittature e degli stati autoritari non solo nella difesa dei diritti e delle libertà ma anche per superare i problemi sociali e il declino economico.
Impegno comune
Salvare l’economia è stato il primo fondamentale passo per tutelare la democrazia. Col New Deal è iniziata la costruzione di una nuova America. Persone di differenti culture e di diverse parti degli Stati uniti hanno lavorato fianco a fianco per costruire strade, ponti, dighe per dare non solo trasporti migliori e una più estesa e funzionale rete elettrica, ma anche una nuova cultura nazionale, dotata di maggiori fondi per l’arte, il teatro, la musica, la letteratura, estesa a tutto il paese non solo nelle città ma anche nelle comunità più piccole e lontane. Grazie alla radio gli americani hanno condiviso come mai prima e anche in seguito dei sentimenti comuni, la sofferenza ma anche degli ideali, il desiderio e la determinazione di raggiungere nuovi traguardi. Ha preso così l’avvio il racconto corale di una nuova storia americana sintetizzato dalla frase del giornalista e scrittore George Seldes: “Americans All, Immigrants All” (Siamo tutti americani, siamo tutti immigrati). Amore per la gente comune e la vita di ogni giorno, preoccupazione per il benessere di tutti sono state le caratteristiche della letteratura, dell’arte, della fotografia, della musica, del teatro e del cinema più significativi degli anni Trenta. Contemporaneamente si aprirono degli accesi dibattiti sul significato e sul futuro della democrazia tra politologi, economisti, filosofi americani ed europei, tra cui Bertrand Russel e Benedetto Croce, che alla domanda: “Pensa che la democrazia sia ormai in declino?”, rispose: “La considero una domanda di tipo ‘meteorologico’ perché è come chiedere: ‘Ritiene che oggi pioverà? È meglio che prenda l’ombrello?’”. Aggiunse: “I problemi politici non sono forze esterne al di fuori del nostro controllo. Abbiamo solo bisogno di deciderci e di agire”.
Analogie e confronti
Sono significative le affinità tra gli anni Trenta, da cui possiamo ancora oggi trarre utili suggerimenti, e la situazione attuale, anche se i confronti tra epoche o momenti diversi della storia, se da una parte offrono la possibilità di confronti, dall’altra hanno sempre la necessità di essere interpretati e valutati in modo da evidenziare le inevitabili differenze. Dal punto di vista geopolitico c’è un parallelismo tra la nascita di nuovi stati sia dopo la prima guerra mondiale sia in seguito alla dissoluzione dell’Unione sovietica. Alcune di queste nazioni come l’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia, oggi divisa tra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca, dopo l’invasione nazista sono state annesse all’Unione Sovietica fino al termine della Guerra fredda nel 1991. In seguito si sono date una costituzione democratica, modelli economici e politici di tipo occidentale che hanno favorito il loro ingresso nell’Unione europea nel 2002, ma Viktor Orbán in Ungheria e Jaroslaw Kaczynski in Polonia hanno poi varato controriforme costituzionali a esclusivo vantaggio del potere esecutivo. Per quanto riguarda gli Stati uniti dopo il Civil e il Voting Rights Act, i valori democratici hanno subito un progressivo impoverimento e secondo il The Democracy Index, la classifica compilata ogni anno dal settimanale The Economist per valutare lo stato della democrazia nel mondo (https://www.eiu.com/topic/democracy-index) gli Usa sono oggi una “Flawed democracy” (democrazia imperfetta), mentre nel 2006 erano ancora considerati una “Full democracy” (piena democrazia) perché nonostante non abbiano subito mutamenti traumatici paragonabili a quelli avvenuti in Europa negli anni Venti del Novecento, devono confrontarsi con una diffusa intolleranza che spesso degenera in violenza, oltre a una divisione in fasce sociali contrapposte secondo l’appartenenza etnica, culturale o economica, la violazione dei diritti umani e un’informazione che ha perso gran parte della sua autorevolezza ed è troppo spesso vittima delle logiche dei social media.
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“Oltre la metà degli elettori di otto paesi europei e degli Usa è insoddisfatta del funzionamento della democrazia e ritiene che i politici siano corrotti”
“La maggior parte dei cittadini pensa di essere governata da élite che troppo spesso all’arroganza e al cinismo uniscono impreparazione ed egoismo”
“Mentre in alcuni stati europei sono state attuate controriforme costituzionali, gli Usa sono diventati una ‘Flawed democracy’, una democrazia imperfetta”
“Contro la crisi della democrazia hanno iniziato a mobilitarsi numerose persone, tra cui molti giovani, che si battono per proteggere la sua eredità”
“Gli stati democratici oltre a garantire le libertà e i diritti civili riescono a superare meglio delle dittature i problemi sociali ed economici”
“Come ci ricorda Benedetto Croce: ‘I problemi politici non sono forze al di fuori del nostro controllo. Abbiamo solo bisogno di deciderci e di agire’”
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ANDIAMO VERSO UNA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA?
Più limiti all’azione dei politici e maggiore spazio alle decisioni dei cittadini
Da tempo si registrano una crescente dissociazione e un sempre maggiore malcontento nei confronti delle decisioni prese dai politici in campo sociale, economico e amministrativo. Questo porta molte persone a mettere in dubbio la formazione del consenso e a schierarsi in favore di una democrazia deliberativa in cui la volontà della maggioranza non viene espressa dai rappresentanti eletti ma direttamente dai cittadini. Da parte dei sostenitori della democrazia rappresentativa si mette però in rilievo che, oltre alla difficoltà di applicare la democrazia diretta a società complesse come la nostra, le persone votano spesso sull’onda dell’emotività e delle tendenze del momento e non sempre riescono a comprendere in modo compiuto la complessità dei problemi come per esempio l’emergenza climatica, che avrebbero bisogno di essere affrontati con maggiore consapevolezza e una conoscenza analitica. Si crea così un cortocircuito che manda in crisi le società democratiche. Un aiuto a comprendere meglio il problema ci viene dal libro di Hélène Landemore, docente di Scienze politiche all’Università di Yale Democratic Reason: Politics, Collective Intelligence, and the Rule of the Many (La saggezza della democrazia: la politica, l’intelligenza collettiva e la regola della maggioranza, Princeton University Press, pp. 304, 24,95 dollari, eBook 18,42 dollari) in cui l’autrice ci fa comprendere che se le decisioni individuali possono essere spesso errate a causa della disinformazione, dei pregiudizi o di scelte fatte sul filo delle emozioni e non della ragione, il processo decisionale collettivo, cioè il risultato delle scelte di gruppi di cittadini compiute su diverse alternative, può essere al contrario sorprendentemente utile. Landemore dimostra infatti che le decisioni prese in modo democratico da molte persone hanno più probabilità di essere migliori di quelle prese da pochi. La democrazia deliberativa come forma di governo è quindi non solo legittima ma anche la forma più intelligente di governo, come sembrano confermare anche alcuni casi concreti tra cui per esempio in Irlanda The Constitutional on the Convention in cui i cittadini sono stati chiamati a deliberare non solo su temi sensibili come l’interruzione volontaria di gravidanza o il matrimonio tra persone dello stesso sesso ma anche su argomenti legati alla Costituzione come l’età in cui poter votare e la durata del mandato presidenziale.