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Il Grande Fratello? È dentro le nostre case

Frigorifero, lavatrice, radio, tv, impianti di riscaldamento e climatizzazione, sistemi di allarme, ma anche auto, sensori per il fitness, mobili, frullatori, lampadine. Siamo circondati da dispositivi intelligenti spesso dotati di telecamere, con software che consentono di scambiare e trasmettere informazioni utili senza bisogno dell’intervento umano, per prevenire e risolvere problemi, migliorare le prestazioni, armonizzare i consumi, avere conoscenze a ciclo continuo sulla realtà che ci circonda, ma che allo stesso tempo analizzano abitudini, indirizzano scelte, anticipano desideri tenendo sotto controllo ogni istante della nostra vita. È possibile collegare in rete ogni cosa, insieme a persone, animali e piante. Ma avere strade capaci di dialogare con auto, semafori e segnaletica per ottimizzare i flussi di traffico e, di conseguenza, ridurre l’inquinamento, oppure termostati in grado di essere diretti a distanza e apprendere le nostre abitudini per scegliere in ogni momento la temperatura più adatta significa anche che, più o meno consciamente, stiamo scambiando bisogni, insicurezze, paure con la certezza del controllo perché per poter gestire tutto quello che ci circonda è necessario accettare di essere sempre sotto lo sguardo, freddo e implacabile, degli oggetti che ci circondano.

Dati personali e sensibili in pericolo
Negli Stati uniti si sta diffondendo Sense, una piccola scatola rossa con antenna wireless, che attraverso un’app dello smarphone consente di monitorare tutti gli apparecchi presenti in casa collegati alla corrente elettrica e avere dati sempre aggiornati sull’utilizzo, i consumi e le spese di ogni dispositivo. Insieme a un altro congegno wifi denominato Twine, aiuta a prevenire i problemi di funzionamento, razionalizzare i consumi e limitare per esempio l’utilizzo di acqua e di energia secondo i bisogni reali in base a stagione, temperatura, umidità e previsioni del tempo. Perché, come recita il claim di Sense: “Be informed. Listen to your home”, è importante saper “ascoltare” le esigenze e i consigli della propria abitazione. Ma oltre alle segnalazioni utili, i sensori collocati su ogni utensile possono dare numerose indicazioni sui nostri comportamenti e su quelli dei nostri familiari entrando spesso in conflitto con la tutela della privacy, esponendoci al pericolo di perdere il controllo di quello che viene comunicato in rete riguardo alle nostre abitudini e ai nostri dati personali e sensibili, come lo stato di salute e la vita sessuale.

Futuro incerto e distopico
Sense, a differenza di altri dispositivi che rivelano solo gli elementi generali di utilizzo degli elettrodomestici, può mostrare quando, con quale frequenza e per quanto tempo si utilizzano i singoli apparecchi. In un prossimo futuro, non appena sarà possibile disaggregare e analizzare queste conoscenze, elementi apparentemente innocui potranno essere usati da aziende, banche e assicurazioni per approfondire il profilo di dipendenti, collaboratori e clienti, in base alle proprie abitudini, a come trascorrono il tempo libero e a quali hobby si dedicano in modo da esprimere giudizi e indirizzare offerte commerciali nel modo più preciso possibile. Sense si dichiara attento a garantire la privacy e ha attuato una policy aziendale in cui vieta la vendita di informazioni sui propri utenti senza la loro autorizzazione e, su richiesta, si dichiara disponibile a eliminarle, ma conserva il diritto di servirsi di dati anonimi per migliorare i propri algoritmi. Niente vieta però alle società di modificare il loro codice deontologico e il successo nel campo della tecnologia avanzata si basa sempre più su modelli di business capaci di attrarre investimenti. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile mantenere o acquisire la leadership del settore in cui si opera e uno degli strumenti più usati è quello delle acquisizioni. Di conseguenza, anche le aziende più solide possono diventare preda di altri gruppi e modificare le proprie regole di salvaguardia del consumatore. Se a questo aggiungiamo che attualmente l’internet delle cose è basato su dispositivi che non sono sempre intelligenti (smart) come ci promettono, è facile comprendere che la sicurezza dei dati, già minacciata dalla consuetudine di condividerli sui social network, rischia di essere un’utopia e un vero e proprio vaso di Pandora. Se il presente e il futuro si presentano così distopici, potremmo pensare di non servirci più di questi strumenti, ma le decisioni non seguono solo la logica e sono molto spesso condizionate dalle nostre abitudini cui riusciamo difficilmente a rinunciare. Come fare, per esempio, una ricerca sul web senza Google, oppure connetterci a una rete di amici e di lavoro eliminando Facebook e Linkedin? Senza dimenticare che per stipulare un’assicurazione auto sarà sempre più richiesta l’installazione di un dispositivo che rileva lo stile di guida e per avere un prestito dalla banca o dalla finanziaria dovremo vincolarlo alla possibilità di accesso ai nostri dati. Ma nel cloud saranno archiviati anche gli impulsi elettrici, che si attivano quando accendiamo una lampadina, avviamo la lavastoviglie o il frullatore e si trasformano in informazioni facili prede di controllori e imbonitori.

“Lifelogging” come terra di conquista
Ma oltre all’internet delle cose quali altri strumenti sorvegliano le nostre esistenze? Agli smartphone, che accompagnano ogni istante della nostra vita e trasmettono un numero infinito di indicazioni su cosa facciamo, quello che pensiamo, come ci muoviamo e sui nostri contatti sociali si sono aggiunti i wearables. Sono i dispositivi indossabili prevalentemente al polso e le tecnologie digitali di lifelogging tra cui, come in The Circle, il libro di Dave Eggers dal quale è stato tratto l’omonimo film, microvideocamere da inserire sugli abiti che tengono sotto costante osservazione i nostri comportamenti trasformandoli in dati analogici. Secondo i membri di Quantified Self, il movimento creato nel 2009 in California dai futurologi Kevin Kelly, cofondatore della rivista Wired e Gary Wolf, con gli smartwatch e soprattutto con i braccialetti che si usano per monitorare l’attività fisica, i dati del sistema cardiocircolatorio, le ore di sonno e l’attività sportiva è possibile acquisire, in modo semplice e quasi come in un gioco, uno stile di vita sano e attivo. Ma non sono solo i consumatori e i produttori a interessarsi ai wearables, che generano ricavi per alcuni miliardi di dollari. Molte aziende, specialmente quelle che operano nelle assicurazioni, nell’informatica e soprattutto nel campo della sanità privata vedono nel lifelogging un settore da conquistare. Se per le assicurazioni sanitarie la possibilità di controllare lo stato fisico degli utenti consente di poter tracciare in modo preciso il profilo dei propri clienti diminuendo così i rischi e per le imprese digitali di aumentare i profitti, per quanto riguarda la sanità siamo di fronte a un cambiamento radicale.

Informazioni nuova merce di scambio
L’invecchiamento della popolazione sta aumentando l’incidenza delle malattie croniche e la possibilità di monitorare attraverso la rete i dati biologici e i parametri fisiologici più significativi consente di limitare ai casi urgenti il ricorso alle visite mediche sul posto. Inoltre, grazie alla telemedicina, i dati raccolti potranno essere analizzati e generare nuove conoscenze ma, allo stesso tempo, le strutture sanitarie avranno l’opportunità di effettuare esami clinici all’insaputa degli assistiti. La telemedicina richiede infatti infrastrutture tecnologiche molto avanzate, che vengono fornite quasi esclusivamente da grandi aziende private, le quali basano gran parte del loro business sull’analisi e la classificazione degli assistiti. Il governo italiano ha recentemente avviato un progetto di sanità 2.0. in partnership con l’Ibm, che avrà così a disposizione molte tra le principali informazioni sul grado di salute della nostra popolazione. Google, tramite Alphabet e la sua divisione Verily, che opera nel campo delle scienze della vita e raccoglie dati a scopo di ricerca biomedica, ha iniziato il progetto Baseline (https://www.projectbaseline.com) che ha come slogan: “We’we map the world. Now let’s map human health” (abbiamo tracciato la mappa del mondo, ora realizziamo quella della salute umana) in cui diecimila volontari per quattro anni forniranno ogni giorno indicazioni dettagliate sulla loro condizione fisica e dovranno sottoporsi a esami periodici e test genetici. Lo scopo dichiarato è quello di creare nuovi strumenti in grado di prevenire l’insorgere di patologie prima di effettuarne la diagnosi, ma mentre vi sono dubbi sull’efficacia del progetto (i dispositivi indossabili non sono sempre sufficientemente precisi e utilizzati nel migliore dei modi) è certo che in questo modo saranno ridefiniti su basi opinabili i concetti di salute, malattia, “normalità” e che le informazioni sul nostro stato di benessere potranno diventare facilmente merce di scambio. È quindi più che mai indispensabile valutare le implicazioni sociali ed etiche di questi prodotti in relazione alle conseguenze che possono causare in un futuro ormai molto prossimo.

 


 

“I segnali emessi dai sensori collocati su ogni utensile della nostra abitazione possono dare numerose informazioni anche sui nostri comportamenti”

“Aziende, banche e assicurazioni avranno la possibilità di approfondire il profilo di dipendenti, collaboratori e clienti, in base alle proprie abitudini”

“All’internet delle cose e agli smartphone si sono aggiunti i wearables, i dispositivi indossabili che monitorano ogni aspetto della vita quotidiana”

“La sicurezza dei dati, già minacciata dalla consuetudine di condividerli sui social, potrebbe rivelarsi un’utopia e un vero e proprio vaso di Pandora”

“Ci esponiamo al pericolo di perdere il controllo di ciò che viene comunicato in rete riguardo a dati sensibili come la salute e la vita sessuale”

“In un prossimo futuro, grazie alla telemedicina, le strutture sanitarie saranno in grado di effettuare esami clinici all’insaputa degli assistiti”

 


 

Perché i Big Data sono la risorsa più preziosa
La nuova egemonia che sta dominando il mondo

Non più i massimi esponenti del petrolio e della finanza. I nuovi dominatori si chiamano Alphabet (la holding cui fa capo Google), Amazon, Apple, Facebook e Microsoft, le cinque compagnie quotate più importanti del mondo. La loro egemonia si basa sul possesso e il controllo dei dati, un potere inedito che consente loro di esercitare una grande influenza su ogni persona e attività. Qualunque azione noi compiamo, dalla più semplice alla più complessa genera una o più tracce digitali, le quali vengono registrate, analizzate e interpretate da algoritmi, che consentono non solo di definire il profilo di ogni utente, ma anche di prevedere le sue scelte, dando un grande, e spesso incontrollato potere a queste compagnie. Un futuro che è già presente e si manifesta con aspetti inquietanti. Oltre alla tutela della concorrenza (solo pochi giganti dominano un immenso campo di azione), alla sicurezza dei dati e della privacy, un’attenzione particolare deve essere dedicata a come vengono utilizzate le informazioni. In Weapons of Math Destruction: How Big Data Increases Inequality and Threatens Democracy (Armi matematiche di distruzione, come i Big Data aumentano le disuguaglianze e minacciano la democrazia, The Crown Publishing Group, pp. 272, 26 dollari, eBook 10,99 euro) la studiosa americana Cathy O’Neil utilizza in modo critico l’espressione usata per definire le armi di Saddam Hussein e, grazie alla sua esperienza di analista quantitativa, ci fa riflettere sugli effetti dannosi provocati dall’uso incontrollato degli strumenti matematici, tra cui pone in primo piano i Big Data e gli algoritmi. Come ci ricorda O’Neil questi strumenti, che quantificano la qualità di persone, determinandone la condizione sociale, imprese e istituzioni possono non soltanto produrre risultati sbagliati, ma soprattutto favorire le disuguaglianze e mettere a rischio la democrazia. Nonostante siano apparentemente prodotti da strumenti tecnologici privi di sfera emotiva, in realtà sono elaborati da persone che hanno come scopo principale quello di confermare gli obiettivi dei programmatori e, di conseguenza, soddisfare le esigenze dei loro committenti, focalizzate quasi esclusivamente sull’efficienza e la massificazione dei profitti, riproponendo così pregiudizi codificati.

 

Alexander Deineka, Textile Workers, 1927. Museo di Stato Russo, SanPietroburgo/DACS 2016. Dalla mostra Revolution: Russian Art 1917-1932, Royal Academy, Londra, 2017.

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