Il successo crescente del populismo e del nazionalismo da cui sono nati i movimenti sovranisti in Europa, l’espansione dei flussi migratori e il conseguente ritorno delle frontiere, l’aumento dei conflitti commerciali tra gli Stati uniti e la Cina hanno in comune la sconfitta dell’idea che una globalizzazione sempre più estesa e radicata avrebbe aiutato l’espansione del capitalismo e della democrazia liberali. Sviluppo incontrollato dell’economia mondiale, progressiva erosione delle tradizioni e delle diverse identità culturali, maggiore attenzione da parte dei governi verso i mercati internazionali rispetto ai bisogni dei propri elettori, soprattutto se appartenenti alle fasce più deboli della popolazione, sono stati tra i principali fattori che hanno favorito il mutamento profondo dell’equilibrio economico e geopolitico formatosi alla fine della seconda guerra mondiale. Per quasi trent’anni la diffusione della democrazia ha consentito un generale aumento del benessere nel mondo occidentale anche grazie a decisioni politiche che hanno sostenuto una maggiore spesa pubblica con cui sono state realizzate fondamentali opere di interesse generale, regolato le attività bancarie e consentito ai sindacati di svolgere un importante lavoro di mediazione tra capitale e lavoro. Se negli anni Cinquanta e Sessanta l’espansione dell’economia ha favorito la crescita e il consolidamento della classe media, a partire dai primi anni Settanta il capitalismo senza regole e le attività finanziarie hanno ripreso il sopravvento sulle decisioni politiche e provocato sempre maggiori disuguaglianze e un diffuso senso di insicurezza. Ma è ancora possibile ritrovare la volontà e la capacità di cambiare l’attuale situazione?
Reazioni pericolose
Per rispondere a questa domanda è molto utile il nuovo libro del giornalista e scrittore americano Robert Kuttner, tra i fondatori dell’Economic Policy Institute, Can Democracy Survive Global Capitalism? (W. W. Norton & Company, pp. 384, 27,95 dollari, paperback 17,95 dollari). Attraverso la rilettura di La grande trasformazione (Einaudi, pp. 383, 26 euro) uno studio fondamentale scritto nel 1944 da Karl Polanyi sulla crisi delle istituzioni liberali negli anni Trenta del secolo scorso, in cui l’economista e filosofo ungherese con una innovativa analisi storica e antropologica ha mostrato i limiti e l’infondatezza delle tesi dell’economia classica e neoclasssica e il carattere “singolare” e non “naturale” delle società basate sul mercato, Kuttner ci fa comprendere come il nuovo ordine globale basato sul libero commercio, sui mercati del lavoro competitivi e asimmetrici e sul dollaro come moneta standard ha formato un sistema di poteri e di relazioni simile a quello formatosi dopo la prima guerra mondiale fondato sugli scambi internazionali, su un mercato del lavoro competitivo e sul gold standard, il sistema aureo dove la base monetaria è stabilita da una quantità fissata di oro, in cui la rapida ma incontrollata crescita economica creò una situazione così instabile e distruttiva delle relazioni sociali da portare a una disoccupazione diffusa, al fascismo in Italia, alla Grande depressione negli Stati uniti, al nazismo in Germania e alla Seconda guerra mondiale. Gli eventi accaduti negli anni Venti del Novecento e nell’attuale momento storico dimostrano che quando l’economia non è più in relazione con la maggior parte della popolazione e la politica è incapace di venire incontro alle esigenze di chi è stato escluso o messo ai margini dai processi di trasformazione sociale, è quasi inevitabile avere delle reazioni che possono provocare scelte radicali che minano le basi stesse della democrazia. Oggi, come negli anni Trenta, sono sempre più numerose le nazioni in cui si attaccano e riducono i diritti civili, si sottomette la magistratura alla “ragion di stato”, si minaccia e impedisce la libertà di stampa, si licenziano i dipendenti pubblici non allineati alle politiche di regime. Per Kuttner, a differenza di allora, i problemi attuali non sono più causati dal contrasto fra le richieste dei lavoratori e le risposte di governi e imprenditori reazionari, ma soprattutto dal mutato atteggiamento delle sinistre che non hanno più seguito i principi fondamentali di equità e solidarietà. Con il dissolvimento dell’Unione sovietica si è spezzato un equilibrio che ha via via spinto i democratici americani, i laburisti inglesi e molti partiti di ispirazione socialdemocratica europei ad assecondare sempre più le dinamiche del mercato e dei grandi investitori a svantaggio dei lavoratori, che non si sono più sentiti rappresentati dai loro tradizionali punti di riferimento e non hanno quindi esitato a sostenere chi ha promesso la difesa dei loro diritti.
Critica al “libero mercato”
Come ricorda Kuttner, Polanyi riteneva un’utopia i processi di autoregolamentazione dei mercati. Per la maggior parte della nostra storia il denaro e lo scambio di beni sono stati infatti strettamente legati alla cultura, alla religione e alle decisioni politiche e sociali e l’idea di subordinare le decisioni di uno stato a quelle del libero mercato è iniziata in Inghilterra solo a partire dalla metà degli anni Trenta dell’Ottocento. Concetti sostenuti anche dall’economista britannico John Maynard Keynes che negli anni Trenta del Novecento, lo stesso periodo in cui Polanyi esprimeva la sua critica, ha affermato che le economie capitaliste non si possono autoregolare perché i mercati del lavoro, delle merci e del denaro non raggiungono i punti di equilibrio in modo autonomo ma solo attraverso relazioni complesse che possono avere effetti dannosi e non prevedibili. Inoltre nei momenti di difficoltà, proprio quando ci sarebbe maggiore bisogno di stimoli esterni, le economie liberiste privilegiano scelte non espansive e, di conseguenza, i ricchi diventano sempre più ricchi, la classe media vede progressivamente diminuire il proprio benessere e la popolazione si impoverisce. Durante la Grande depressione Keynes sostenne che per uscire dalla crisi i governi dovevano fare deficit per investire in opere pubbliche e verso la metà degli anni Quaranta, quando Polanyi pubblicò La grande trasformazione, la teoria keynesiana è diventata ortodossia in campo economico.
La fine dell’“età dell’oro”
Il ricordo del disordine finanziario e della conseguente gravissima crisi economica che hanno portato alla Grande depressione, favorito il consolidamento del fascismo in Italia e la nascita del nazismo in Germania, unito al pericolo rappresentato dall’Unione sovietica vista dai ceti economicamente più deboli come una possibile alternativa alla democrazia, hanno spinto gli stati occidentali ad attuare nel secondo dopoguerra politiche più vantaggiose nei confronti dei lavoratori, attraverso stimoli alla crescita con basi tassi di interesse e programmi sociali su larga scala anche grazie agli aiuti del Piano Marshall. Una situazione iniziata nel 1944 con la Conferenza di Bretton Woods, in cui le nazioni più industrializzate hanno stabilito una serie di regole e procedure per tenere sotto controllo il regime dei cambi e la politica monetaria internazionale, durata fino agli inizi degli anni Settanta e definita dall’economista francese Thomas Piketty “capitalismo senza capitalisti”, che ha portato contrariamente a quanto pensavano i fondamentalisti del libero mercato a un lungo periodo di prosperità e a una forte diminuzione delle disuguaglianze. Nei tre decenni successivi al 1945 la produzione pro capite è cresciuta in Europa occidentale e Nord America a ritmi mai verificatesi prima e non più eguagliati. In questo periodo non sono avvenute crisi bancarie o finanziarie significative, il reddito dei cittadini europei è aumentato come nei precedenti centocinquant’anni e negli Stati uniti la disoccupazione, che negli anni Trenta era arrivata a una soglia tra il 14 e il 22,5 per cento, è scesa negli anni Cinquanta a una media del 4,6 per cento. Come ricorda l’economista americano Barry Eichengreen nel suo recente libro The Populist Templation. Economic Grievance and Political Reaction in the Modern Era (Oxford University Press, pp. 260, 18,99 sterline) in questo periodo nessun leader populista è andato al potere e, tranne in situazioni particolari e limitate come in Italia e Francia, i partiti estremisti sono stati seguiti da una percentuale ristretta di elettori. Ma, sottolinea Kuttner, questa “età dell’oro” è terminata nel 1973, l’anno che segna “the end of the postwar social contract” (la fine del contratto sociale postbellico), in cui le politiche keynesiane sono state sostituite da scelte economiche neoliberiste. Tra il 1973 e il 1992, la crescita del reddito pro capite nel mondo occidentale è stata la metà di quella registrata tra il 1950 e il 1973 mentre le differenze di reddito sono aumentate in modo significativo. Dal 2010, per esempio, le retribuzioni mediane dei lavoratori americani agli inizi di carriera sono state inferiori del quattro per cento a quelle del 1970 e, come aveva previsto Polanyi, la fiducia nella democrazia è iniziata a scivolare a livelli molto bassi. Per Kuttner inoltre il sostegno ai movimenti estremisti in Europa occidentale è oggi maggiore rispetto a quello che si registrava negli anni Trenta.
Mancanza di vincoli
Con la decisione del presidente degli Stati uniti Richard Nixon di porre fine nell’agosto del 1971 al regime dei cambi fissi e della convertibilità del dollaro con l’oro per evitare di mettere a rischio le riserve auree Usa nel finanziamento della costosissima guerra del Vietnam, il sistema valutario e finanziario si è trasformato in un mercato senza limiti, dove l’unica legge è quella del massimo profitto. È iniziato così un lungo periodo di instabilità economica e finanziaria aggravato dalla crisi energetica dell’ottobre del 1973 in seguito alla decisione dei paesi arabi dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) di tagliare del venticinque per cento le esportazioni di greggio verso i paesi occidentali per il loro appoggio a Israele nella guerra del Kippur, che portò a un vertiginoso aumento del prezzo del petrolio e dei suoi derivati con cui si è concluso il lungo ciclo di sviluppo economico che ha caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta. Per Kuttner “deregulation of constraints on transnational movements of money, products, service and labor” (la mancanza di vincoli sui movimenti transnazionali di denaro, prodotti, servizi e lavoro) modifica i criteri di distribuzione del potere anche a livello nazionale e aumenta l’influenza delle élite che più si avvantaggiano con la globalizzazione. Di conseguenza, per ristabilire i principi fondamentali della democrazia è indispensabile il ripristino di regole sui mercati del lavoro, delle merci e delle valute e un coinvolgimento sempre maggiore dei cittadini sia a livello di responsabilità individuale sia per chiedere politiche e investimenti a sostegno di una crescita che porti a un benessere più diffuso e riduca le disuguaglianze.
Vuoto di rappresentanza
All’avvento dell’economia globale non è seguita la nascita di una società globale. Troppo spesso parlamenti e governi hanno approvato decisioni prese da centri di potere e di influenza al di fuori del dibattito democratico e sono venuti meno alla loro azione di riequilibrio tra diverse esigenze. Sotto il segno di una presunta modernizzazione basata esclusivamente sull’efficienza e su una sempre più ampia apertura dei mercati, per loro natura profondamente instabili, sono venute a mancare le promesse di progresso per tutti e in modo particolare per la classe media messa in crisi dalla crescente automazione dei beni e dei servizi, dalla maggiore difficoltà di ascesa sociale e da un welfare sempre meno generoso. L’orizzonte ottimistico basato sul miglioramento continuo di tutte le componenti sociali è stato così sostituito da una crescente frammentazione e polarizzazione della politica e dell’economia in cui i partiti e le organizzazioni storicamente più vicini alle richieste dei ceti popolari e alla componente più innovativa della classe media, rappresentati dalle sinistre, dal pensiero cattolico progressista e liberalsocialista, hanno deciso di seguire i principi neoliberali invece delle loro tradizionali politiche basate sulla coesione, la stabilità, l’equità, la tutela e la salvaguardia patrimonio storico e culturale espresso dai movimenti riformatori. L’incapacità di ascoltare e di comprendere queste domande di protezione suscitata dagli effetti negativi della globalizzazione, dai processi di internazionalizzazione politica e culturale e da un progresso tecnico e scientifico con cui è sempre più difficile entrare in dialogo ha creato un vuoto molto spesso riempito dalle forze populiste e nazionaliste, che si sono incaricate di dare nuove risposte a queste diverse e diffuse esigenze in seguito alla perdita di efficacia dei tradizionali meccanismi democratici legati alle elezioni, al voto, al ruolo dei partiti e alla rappresentanza parlamentare attraverso la riaffermazione del primato della politica sull’economia.
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“Cresce il numero dei paesi dove si riducono i diritti civili, si sottomette la magistratura alla ‘ragion di stato’ e si impedisce la libertà di stampa”
“Democratici americani, laburisti inglesi e molti partiti di socialdemocratici europei hanno sostenuto politiche di mercato a svantaggio dei lavoratori”
“I ricchi diventano sempre più ricchi, la classe media vede progressivamente diminuire il proprio benessere e la popolazione si impoverisce”
“Gli stimoli all’economia hanno portato nel secondo dopoguerra a un lungo periodo di prosperità e a una forte diminuzione delle disuguaglianze”
“Nel 1973 con l’inizio delle politiche economiche neoliberiste, è diminuito fortemente il reddito pro capite e sono aumentate le disuguaglianze”
“Per ristabilire i principi della democrazia è indispensabile dare più regole ai mercati e coinvolgere i cittadini nelle scelte politiche”
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I LIMITI DELLA GLOBALIZZAZIONE
Le cause, le promesse mancate e le possibili soluzioni
Come scrive il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz, docente alla Columbia University a New York ed esponente della sinistra neokeynesiana nell’introduzione del suo nuovo saggio La globalizzazione e i suoi oppositori. Antiglobalizzazione nell’era di Trump (Einaudi, pp. LIV-494, 15 euro), edizione ampliata e riveduta del suo ormai classico La globalizzazione e i suoi oppositori pubblicato nel 2002, “i populisti, sia nei mercati emergenti sia nei paesi avanzati, danno voce al malcontento dei loro cittadini nei confronti della globalizzazione, ma solo pochi anni prima, i politici dell’establishment avevano promesso che tutti avrebbero tratto giovamento dalla globalizzazione. E anche due secoli e mezzo di ricerca economica – a partire da Adam Smith che scriveva alla fine del Settecento e David Ricardo agli inizi dell’Ottocento – confermavano che la globalizzazione sarebbe andata a vantaggio di tutti i paesi. Se dicevano il vero, come si spiega che tante persone nei paesi avanzati e in via di sviluppo nutrono invece sentimenti di così grande ostilità? È possibile che a sbagliarsi non siano stati solo i politici ma anche gli economisti?”. Stiglitz, che è stato presidente dei consiglieri economici nell’amministrazione Clinton, Senior Vice Economist e Chief Economist della Banca Mondiale, in questo nuovo libro dove ha in parte rivisto il suo giudizio negativo sui benefici della globalizzazione a patto di rivedere le regole e rimodulare gli accordi commerciali, ha arricchito di dati e approfondimenti la sua analisi sull’aumento delle disuguaglianze, sull’impoverimento dei lavoratori e sul declino della classe media nei paesi avanzati. L’economista americano si sofferma in modo particolare sulle cause che in molti paesi occidentali hanno portato gli appartenenti ai ceti sociali più danneggiati dalle politiche neoliberiste a non votare più i partiti di sinistra, ma a sostenere quelli della destra come dimostra in modo emblematico l’elezione di Trump, che ha saputo cavalcare e amplificare questo malcontento negli Stati uniti. Per Stiglitz la risposta alle politiche attuali, che hanno indebolito le democrazie e non sono riuscite a sradicare la povertà, si può cercare nei paesi scandinavi. Grazie a un modello educativo e sociale da cui tutti i cittadini possono avere benefici sono riusciti ad affrontare in modo positivo i processi di globalizzazione e a utilizzare i vantaggi di un’economia aperta al resto del mondo.